Un “mea culpa” tanto accorato quanto parziale e distorto si leva nella Magistratura.
Mea culpa parziale sotto un duplice aspetto.
Ci sono magistrati che si battono il petto ed altri, benchè appartenenti a quella che pochi giorni fa definivo la “Magistratura predicante”, che tacciono, come se la cosa proprio non li riguardasse.
Parziale e distorto il “mea culpa”, che un po’ tutti respingono dover essere “mea” ma sempre, invece, degli altri, e perché ciò che si ammette è che nell’ANM vi sia una questione morale. Ma non si accenna neppure ad una questione istituzionale, di ruolo politico-istituzionale della Magistratura che di quella “questione morale” e del suo lievitare praticamente indisturbato per anni è la matrice e la principale delle cause.
Il sistema giustizia, il corpo degli arcangeli giustizieri è marcio. Oramai lo si ammette, anche se con insulse ed ipocrite “precisazioni percentuali” (un corpo marcio è marcio tutto, anche se i vermi sono pochi e solo in alcune parti).
Ma nell’ambito della Magistratura non è bastata neppure la rivelazione dell’intreccio tra “correnti” ed ambienti politici “esterni” ad imporre la questione dell’abuso del ruolo, alla rottura dei confini istituzionali della Magistratura.
Rottura che non esiste solo nelle intenzioni, nei programmi, nelle dichiarazioni di principio delle “correnti”, nate, non dimentichiamolo come espressione “parallela” ai principali partiti politici della Prima Repubblica. La Magistratura ha realizzato almeno due Colpi di Stato: quello di “Mani Pulite”, con l’azzeramento della classe dirigente di allora, e, poi, quello contro Berlusconi, “quello di sfasciare”: perseguitato, demonizzato, sbeffeggiato con una serie impressionante ed ininterrotta di procedimenti giudiziari.
Ma lo “straripamento” della Magistratura è ancora più evidente, palpabile nella concretezza di prassi, che mi rifiuto di definire giurisprudenziale, tendente a reprimere con la giustizia penale e la sua sfacciata “anticipazione dei risultati” con l’uso addirittura delittuoso della stampa pennivendola e tirapiedi, con la propalazione di intercettazioni, indizi, ipotesi di addebiti che concretano lo “jus sputtanandi” con il quale i potentati togati tengono “sotto tiro” incutendo loro una poco salutare paura, la classe dirigente, la politica, i ministri, i sindaci.
L’erosione giurisprudenziale dei limiti tra potere legislativo ed esecutivo e potere giudiziario è costante ed unidirezionale, ma la prassi è ricca di espedienti che confermano che non si tratta di giurisprudenza, ma di “guerra civile”, di una rivolta contro i principi costituzionali.
Ed allora il “mea culpa” di fronte al “caso C.S.M.” che si cerca pure di ridimensionare in un nuovo “caso Palamara” è parziale ed ipocrita.
Ci sono i responsabili “marginali” degli intrallazzi del torvo magistrato calabrese che non sentono il bisogno di una “mea culpa” e nemmeno di un esame di coscienza.
Ma, invece, c’è una responsabilità “storica” per quella che è la deformazione del sistema giustizia, la generalizzazione di un “uso alternativo” non più rappresentato da miraggi marxisti e rivoluzionari e in essa è la matrice necessaria dello scivolare della giustizia e del suo “uso diverso” nella corruzione e nell’affarismo.
Tacciono, oggi, i predicatori del pangiustizialismo, i maestri di morale, gli esaltatori di una giustizia, (si fa per dire) senza impacci di vincoli, neppure quello di dover essere “giusta”, senza “le mani legate”, libera di colpire colpevoli e, “occorrendo”, innocenti, capace di incutere anzitutto una salutare (??!!) paura di sé e ciò colpendo chiunque per “incoraggiare” gli altri, come dicevano i generali francesi nel 1917 disponendo la decimazione dei loro soldati.
E’ questo il momento di ricordare e di affermare con forza che senza i Caselli, i Di Pietro, i Davigo, e, tanto per non dimenticare chi, però, dovrebbe essere ricordato ad altro titolo, Di Matteo, con centinaia di loro ammiratori ed imitatori, senza di loro dicevo non avremmo avuto le Saguto, i Palamara.
Il C.S.M. degli intrallazzi per le nomine è quello che non reagì, ma, appunto, cedette alla più bislacca e becera delle pretese di carriera, di un Di Matteo. Per non intricarsi in polemiche che avrebbe, magari, scoperto l’altro che bolliva in pentola.
Ben venga il “mea culpa”. Ma l’esame di coscienza non sia solo quello della coscienza degli altri.
Mauro Mellini
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