Secondo organi stampa, gli accertamenti medico-legali, confermerebbero che il cadavere riesumato sarebbe proprio quello del bandito Giuliano.
Il test del Dna, praticato sui resti sepolti nel cimitero di Montelepre, smentirebbe quanto ipotizzato nell’esposto dello storico Giuseppe Casarrubea, secondo il quale Giuliano avrebbe fatto uccidere un’altra persona, facendola seppellire al posto suo.
A smentire però la notizia apparsa sulla stampa, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.
Per fugare i dubbi sull’appartenenza di quei resti, la Procura ha incaricato alcuni esperti di comparare il profilo genetico con quello di alcuni congiunti di Giuliano.
Salvatore Giuliano , nasce a Montelepre il 12 novembre 1922.
Il padre, che portava il suo stesso nome, era stato costretto ad emigrare negli Stati Uniti.
Con i soldi guadagnati all’estero, riuscì a comprare dei terreni vicino al paese, dedicandosi alla loro coltivazione.
Salvatore (Turiddu in siciliano), era un ragazzo dall’intelligenza vivace, frequentava ancora le elementari e dimostrava una certa attitudine allo studio, anche quando finite le elementari, iniziò ad aiutare il padre, non tralasciando comunque, quando possibile, di continuare a leggere..
Erano gli anni della seconda guerra mondiale e il regime fascista, aveva introdotto tardivamente (16 mesi dopo l’inizio del conflitto) il razionamento del pane e a seguito della mancanza di manodopera nei campi, la quantità dei generi razionati, non riusciva a soddisfare neppure il 50% del fabbisogno della popolazione.
Questa drammatica situazione, portò ad una legalizzazione di fatto del commercio clandestino di generi di prima necessità.
Non furono pochi coloro i quali, si dedicarono a tale lucrosa attività, alcuni, sottraendo o commerciando piccole quantità di prodotti destinate allo stoccaggio, altri, creando un’organizzazione ben strutturata, in grado di trasformare il piccolo commercio illegale in un’attività lucrosa e su vasta scala.
Salvatore Giuliano, come tanti altri, fu tra i piccoli contrabbandieri che si dedicò a tale attività, per sostentare la famiglia e far patire il meno possibile i disagi di quegli anni ai propri cari.
Molti agricoltori, nascondevano derrate alimentari per nutrire la propria gente, ma il problema, era rappresentato dalla macinazione del grano, infatti, tutti i mulini, erano sorvegliati dai militari e questo impediva la macinatura del grano sottratto all’ammasso.
A tal fine, i Giuliano avevano costruito un piccolo mulino segreto.
Ad occuparsi dell’attività, era stato il fratello maggiore, fino a quando non venne chiamato alle armi e toccò quindi al giovane Salvatore, di soli 20 anni, farsi carico della famiglia.
Ma il ragazzo, era inesperto del modus operandi dei contrabbandieri di grano e il 2 settembre 1943, mentre trasportava, con Gaspare Pisciotta, due sacchi di grano (80Kg), incappò in una pattuglia formata da due guardie campestri e due carabinieri.
Le sue preghiere e le spiegazioni date, non furono di alcuna utilità al giovane Salvatore, che si vide accusato di contrabbando e chiese ai militari di essere denunciato, ma non arrestato.
Mentre sembrava che i militi si stessero convincendo, accadde quell’imprevisto che porterà “Turiddu Giuliano” a diventare il bandito di cui si dirà che togliesse ai ricchi per dare ai poveri, ma che venne anche definito, dal giornalista Mike Stern che lo aveva intervistato, . ” un ragazzo, un ragazzo sincero. Aveva solo un lato sbagliato: gli piaceva ammazzare la gente”.
Non potremo mai sapere se gli piacesse ammazzare la gente, mentre invece le cronache e le testimonianze, ci confermano gesti di generosità nei confronti dei più deboli, ciò non toglie il fatto, che lui e la sua banda, furono autori di numerosi omicidi.
Mentre i militari controllavano i documenti di Giuliano, al quale sequestravano mulo e grano, sopraggiunsero quattro muli carichi di frumento e i carabinieri, lasciarono Giuliano per fermare i contrabbandieri.
A quel punto, Salvatore Giuliano, approfittando della distrazione dei militari, tentò la fuga, ma i componenti della pattuglia, che avevano ordini ben precisi, spararono sei colpi nella direzione del fuggiasco, centrandolo due volte ad un fianco.
Giuseppe Mancino, carabiniere della pattuglia, ricevette l’ordine di avvicinarsi a Giuliano per accertarne la morte e nel caso in cui fosse stato ancora vivo, di finirlo con un colpo di grazia.
Salvatore Giuliano era però armato e quando il Mancino si avvicinò a lui, sparò un colpo di pistola ferendolo (morirà il giorno successivo) e seppur malconcio, riuscì a fuggire.
Gli altri componenti della pattuglia infatti, non se la sentirono di inseguirlo nel bosco e iniziò così la storia di Turiddu, per alcuni solo un brigante legato all’ambiente contadino, bandito feroce (circa 150 gli omicidi attribuiti alla sua banda), eroe romantico secondo altri, che sperava nel riscatto civile del suo popolo, allacciando rapporti con il mondo politico, con servizi deviati e con le frange separatiste.
In questo modo, Turriddu divenne l’ultimo bandito delle campagne siciliane, con un grande sogno nel cassetto: la Sicilia deve separarsi dal resto d’Italia e diventare uno stato degli Stati Uniti!
Chissà, se Giuliano non fosse incappato nei carabinieri, se non gli avessero sparato, se non fosse stato dato l’ordine di dargli il colpo di grazia…chissà, forse non sarebbe esistito il Turiddu Giuliano bandito e tante altre cose sarebbero magari andate in maniera diversa.
Dopo quel tragico evento del 2 settembre 1943, Giuliano, ormai bandito, aveva molti sostenitori in paese e iniziò ad aggregare attorno alla sua carismatica figura, quelli che in breve diventarono i componenti della più temuta banda che insanguinò le campagne dell’isola.
Trascorsi i primi due anni alla macchia e resosi protagonista di più imprese banditesche, comincia a formarsi una nuova coscienza, quella del “bandito guerrigliero”.
Una sorta di giustiziere, capace di attaccare le forze dell’ordine, intere colonne di militari, le sezioni comuniste, ma anche di uccidere noti mafiosi come Santo Fleres.
Non ha obiettivi politici, né ha la capacità di progettare o mettere in atto strategie che mirino ad un progetto a più lungo termine.
È animato da una confusa aspirazione alla giustizia sociale, crede nella risposta armata alle angherie da parte dei vari potenti e comincia ad illudersi di svolgere un ruolo politico di primaria importanza, che lo vede contrapposto allo Stato, per sconfiggere il quale, s’illude di poter utilizzare la propria banda, trasformandola in un esercito.
Purtroppo, in quest’ottica, i suoi principali nemici sono coloro i quali servono lo Stato, spesso anche a costo della propria vita.
Nel 1945, si avvicina al Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), inconsapevole del fatto, che sta iniziando a scrivere l’epilogo della sua storia.
Successivamente, spinto anche dall’intelligence americana e da un colonnello dell’esercito americano, che alimentarono l’illusione che la Sicilia avrebbe potuto essere annessa addirittura agli U.S.A. entra a far parte dell’E.V.I.S.(Esercito Volontario per la Indipendenza Siciliana), che operò contro l’esercito italiano nel biennio 45/ 46 ed era comandato all’epoca dall’avv. Antonio Canepa, che verrà ucciso il 17 giugno 1945 in uno scontro con i Carabinieri a Randazzo.
Salvatore Giuliano, entrò nell’EVIS, con il grado di colonnello.
Diventa quindi un guerrigliero, un combattente che affascina e riesce ad ottenere consenso tra la popolazione, in particolar modo tra i contadini, che vedono in lui la speranza del riscatto da una vita di stenti e di soprusi.
Durante questo periodo, la leggenda di Giuliano il bandito, si arricchisce di particolari che riguardano anche la sua sfera privata, si narra di amori bruciati in poche ore, di donne che riescono tramite i suoi uomini a raggiungere il bandito o di appuntamenti galanti ai quali lui si reca, sfidando tutti i pericoli.
In verità, Salvatore è un uomo accorto, capisce benissimo che un legame stabile che lo coinvolga intimamente, lo condurrebbe irrimediabilmente alla fine e di conseguenza, evita di instaurare rapporti sentimentali duraturi.
Certamente, non fu indifferente al gentil sesso, a tal punto che, tra coloro che cercavano con lui un contatto per scrivere la sua storia, ospitò una giovane giornalista, con la quale ebbe una relazione.
Del resto, gli ingredienti c’erano tutti per poter scrivere anche un romanzo.
Lui, dai lineamenti forti, lo sguardo inquieto e indagatore, indubbiamente coraggioso, a volte cinico e feroce, ma capace anche di gesti di grande generosità.
Lei, una giovane straniera, impavida e decisa a scrivere del bandito.
Il tutto, in un contesto di sangue, monti, brulla terra di Sicilia, fughe e agguati.
Cresceva così, nell’immaginario collettivo, la figura di un brigante dal cuore buono.
Purtroppo, così non era per chi mandato a combattere una guerra non voluta, subiva agguati e assalti nel corso dei quali non si evitavano certo inutili spargimenti di sangue.
Molti furono i tentativi da parte dello Stato, per catturare l’imprendibile bandito, ma a nulla valse né il numero di uomini inviati nelle campagne, né le tante operazioni di rastrellamento condotte alla ricerca di Giuliano e la sua banda.
Non solo il “Re di Montelepre”, com’era definito, sembrava imprendibile come un fantasma, ma ad ogni azione condotta dai militari, corrispondeva sempre un’azione di rappresaglia da parte dei banditi, che continuavano a lasciarsi alle spalle una scia di sangue che si allungava di giorno in giorno.
Ma il mito di Giuliano, era già nella sua fase discendente.
Da lì a poco infatti, il M.I.S., entrerà nella legalità e otterrà la garanzia del riconoscimento dello Statuto Speciale Siciliano, da parte di Re Umberto II e Giuliano, che non accettò l’accordo e continuò con la sua banda a fare guerra allo Stato, diventava per tutti un criminale comune.
Anche a livello nazionale, le cose cominciavano a cambiare e con il primo referendum istituzionale, cadde la monarchia, per lasciare posto alla Repubblica.
Nel frattempo, il movimento contadino, che sperava in un cambiamento e nella riforma agraria, iniziava una dura lotta in difesa dei diritti della categoria, che portava all’uccisione di sindacalisti come Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale, dei cui delitti non è mai stata fatta giustizia.
Nel 1946, il nuovo governo italiano, concede l’indulto ai guerriglieri dell’EVIS e Salvatore Giuliano, perde così ruolo ed esercito.
Aveva però nel frattempo stretto rapporti con la mafia, della quale si trasforma presto nel braccio armato
Gli incontri tra Giuliano e uomini delle istituzioni, come l’alto funzionario di PS Ciro Verdiani e il procuratore generale Emanuele Pili, come pure l’ispettore polizia Messana, hanno fatto molto discutere, alimentando il sospetto che dietro le gesta del bandito e dietro la sua stessa fine, si celi ben più di un mistero e tante responsabilità, sulle quali si è sempre preferito tacere.
Prima delle elezioni, Salvatore Giuliano, decide di appoggiare la candidatura di Nino Varvaro, esponente del M.I.S. ( Movimento per l’Indipendenza della Sicilia ) e aveva a tal scopo raggiunto un accordo con il comunista Girolamo Li Causi, ma l’esito della competizione elettorale, evidenziò come Giuliano fosse stato da quest’ultimo ingannato
Deciso a dare una lezione al Li Causi, che servisse da monito anche agli altri, Salvatore Giuliano, ne progettò il sequestro, nel corso della festa del 1° maggio, che si sarebbe svolta a Portella della Ginestra (Pa) .
È il 1° maggio 1947, una folla festante invade la campagna di Portella della Ginestra, nei pressi di Piana degli Albanesi (PA), quando all’improvviso, l’atmosfera festosa è rotta dal crepitio di una mitragliatrice, seguita da un numero imprecisato di colpi sparati con armi di vario genere.
Riversi nel loro sangue, tra le zolle dei campi, restano 11 persone, compreso due bambini, mentre 56 vengono ferite.
Colpevole: Salvatore Giuliano, detto Turiddu, e la sua banda.
Ma come poteva Giuliano, amico dei contadini e amato e aiutato dagli stessi nella sua latitanza, aver dato l’ordine di compiere il massacro?
Non poteva e infatti, come verrà appurato successivamente, gli ordini di Giuliano erano stati precisi: sparare in aria per creare il panico e poter sequestrare Li Causi.
Cosa che non sarebbe potuta comunque accadere, poiché sia Li Causi che i sindaci comunisti di Piana Degli Albanesi e di San Giuseppe Jato, avvertiti prontamente, non si erano recati a Portella della Ginestra.
Giuseppe Passatempo, addetto alla mitragliatrice, aveva violato gli ordini di Giuliano e deliberatamente sparato ad altezza d’uomo.
Giuliano, in seguito avrebbe voluto punirlo per averlo reso colpevole di un gesto da lui non voluto, ma l’intercessione di Salvatore Passatempo e la mediazione di Antonio Terranova, lo convinsero a cercare di superare l’accaduto.
Ma non era stato né un incidente, né la sola azione arbitraria del Passatempo, infatti, secondo alcune fonti, la strage era stata programmata da tempo e sarebbe dovuta avvenire nel caso in cui le sinistre avessero avuto la maggioranza.
Nel ’47, dopo la vittoria delle sinistre alle prime elezioni regionali siciliane, con 29 seggi alle sinistre e 21 alla DC. a Giuliano venne promesso un lasciapassare per l’America in cambio di un’azione che servisse da monito a tutti e che fu fortemente voluta dalla DC e dagli americani.
Secondo alcune ricostruzioni, l’America inviò agenti segreti di quella che era allora l’attuale CIA, muniti di lancia granate, a lanciare sulla folla le “SPECIAL WEAPONS” (Atti desecretati della CIA La Repubblica ANNO 10 N°6 del 10/02/2003), le cui schegge, vennero fuori dagli esami necroscopici e dagli interventi sui feriti.
Ad oggi, non si può comunque affermare che il mandante della strage fosse politico, ma quello che è certo, è il fatto che la DC, abbarbicata al Governo con la Presidenza del Consiglio, i suoi Ministri, i servizi segreti e un apparato dello Stato che aveva collegamenti con i servizi segreti americani e direttamente o indirettamente anche con la mafia, avrebbe dovuto conoscere il piano di Portella della Ginestra.
Ma chi avvisò Li Causi e gli altri? E perché nessuno avvisò i contadini?
La mafia, appoggiò fin dall’inizio le forze antifasciste, dando per scontato che le stesse, sarebbero diventate forza governativa e quindi, con la speranza di vedere riconosciuto il merito di aver salvato i dirigenti comunisti, mentre da un lato contribuiva a costruire e attuare il progetto del massacro, dall’altro, costruiva rapporti amichevoli con quelli che presumibilmente sarebbero andati al governo.
Questo, lascia spazio ad inquietanti interrogativi sull’operato di alcuni dirigenti comunisti, che non si preoccuparono neppure delle sorti di quei poveri disgraziati che caddero in un’imboscata voluta dall’alto e che vide nella presenza di Giuliano e la sua banda il capro espiatorio perfetto, al quale addebitare la carneficina.
Giuliano, dopo questi fatti, divenne un personaggio scomodo per tutti.
Gli americani, dopo l’accordo tra il movimento separatista e il governo italiano, con la concessione di autonomia alla Sicilia, avevano già abbandonato l’E.V.I.S. e Giuliano.
La mafia, accortasi del fallimento del Movimento Indipendentista, non tardò a schierarsi con chi, più forte, poteva dare maggiori garanzie per il futuro, tentando prima con le sinistre e alleandosi in seguito con le forze centriste, quando le stesse furono messe nelle condizioni di poter vincere le elezioni.
Ad avvalorare la tesi che la strage di Portella fu portata a termine anche da uomini estranei alla banda di Giuliano e appartenenti alla mafia, il fatto che le vittime furono colpite da proiettili cal 9, mentre gli uomini di Giuliano, avevano in dotazione armi di cal 6,5.
Da alcune ricostruzioni, pare che sei mitra Beretta calibro 9 furono consegnati a sei mafiosi di San Giuseppe Jato dall’ispettore di Polizia Ettore Messana. (da rifondazionealatri) e questo lascia pensare sullo scellerato patto che Mafia e Stato raggiunsero pur di sotterrare per sempre i fervori dei separatisti siciliani.
I lanciagranate cui si fa riferimento negli atti desecretati dalla CIA, potrebbero essere stati utilizzati da ex componenti del battaglione Vega della Decima Mas, arruolati dai servizi segreti americani.
È infatti risaputo che Junio Valerio Borghese, finita la guerra, venne aggregato ai servizi segreti americani, al fine di creare una struttura in grado di arginare un’eventuale espansione comunista nell’isola e che non fu il solo, che messosi a servizio degli americani, entrò in contatto con la vicenda siciliana.
Fu a quel punto, che Giuliano tentò di giocarsi la sua ultima carta: il “Memoriale sui fatti di Portella della Ginestra”.
Scrisse dunque ai giornali, sostenendo di essere in possesso di documenti che avrebbero dimostrato chi erano i veri colpevoli della strage, ma animato da sentimenti di vendetta, avrebbe anche voluto rapire Bernardo Mattarella, allora sottosegretario del ministero dei Trasporti e Calogero Vizzini , conosciuto come don Calò, che era stato imposto come sindaco di Villalba dagli americani, quale segno di riconoscimento nei confronti della mafia, per i servigi resi dalla stessa durante e dopo lo sbarco in Sicilia.
Così, mentre Giuliano tenta un ultimo bluff, la mafia aveva già scritto la condanna a morte per un uomo diventato ormai troppo pericoloso per tutti e al cui memoriale non crede nessuno.
Il funzionario di PS Ciro Verdiani, avendo compreso che quelli di Giuliano erano bluff, lo avvisò dicendo: “Guardati da tuo cugino”, ma a nulla servì l’avvertimento.
La storia del memoriale, non finirà comunque con la morte di Giuliano.
Tra conferme, smentite, ulteriori conferme e colpi di scena, per tanto tempo ancora, si dubiterà se sia mai esistito e se è vero che lo possegga Maddalena Lo Giudice, la quale, prima per sua ammissione e poi smentendolo, affermò di essere stata l’amante del bandito negli ultimi mesi della sua vita.
Da quanto dichiarato ad un giornalista, Maddalena Lo Giudice, avrebbe avuto tre cose da Salvatore Giuliano: una cassetta colma di gioielli, un memoriale in cui Giuliano aveva scritto accordi, nomi, fatti, di coloro che, appartenenti alle istituzioni e non, lo avevano prima aiutato e protetto e poi tradito; infine un figlio, del quale non si seppe mai nulla.
Proprio per capire, o forse per timore, se realmente Giuliano avesse lasciato un memoriale, si tentò di appurare una delle presunte verità: Maddalena Lo Giudice, aveva o non aveva avuto un figlio?
Allo scopo, oltre all’invio da parte del Ministro degli Interni di un ispettore generale di polizia, per fare luce sulla vicenda, venne chiesto l’intervento di un celebre chirurgo per appurare se la donna avesse mai partorito.
Ma storie fitte di misteri, non possono mancare di ulteriori colpi di scena e così alla domanda se Maddalena avesse mai partorito, il chirurgo, soprappensiero rispose: “forse…”.
A completare l’enigma, la frase con la quale Maddalena termina l’intervista:
“Ecco, questa è la mia storia con Turiddu.
Però io non so ora se essa è vera, o se me la sono sognata tante volte fino a convincermi anch’io che essa è vera!”.
Dopo la strage di Portella della Ginestra, le forze dell’ordine, si avvalsero anche della mafia per chiudere il cerchio attorno a Giuliano e convincere Gaspare Pisciotta a collaborare.
L’ispettore Messana utilizzò un informatore di primo piano, Salvatore Ferreri, detto fra’ Diavolo, mentre il Comando forze repressione banditismo chiese collaborazione a Benedetto Minasola, capo mafia di Monreale pur di arrivare all’eliminazione di Giuliano
A capo delle forze antibanditismo, c’era il colonnello dei carabinieri Ugo Luca.
Mentre De Gasperi presiede il suo quarto Gabinetto, Einaudi è alla guida del Quirinale, il Ministro dell’Interno Mario Scelba, secondo Gaspare Pisciotta, avrebbe dato disposizioni al colonnello Ugo Luca, affinché accettasse un accordo con il Pisciotta stesso, che prevedesse la sua collaborazione per eliminare Giuliano, in cambio di interventi in suo favore, qualora fosse stato arrestato.
Giuliano era infatti molto guardingo ed eliminarlo non sarebbe stato facile.
Allo scopo, vennero incaricati uomini di notevole prestigio tra le forze dell’ordine, di cui alcuni avevano già lavorato con il prefetto Mori e che a quel tempo, si trovavano al servizio del Ministero degli Interni, presieduto dal ministro siciliano Scelba.
Il 5 luglio del ’50, viene ucciso Salvatore Giuliano e si organizza nel cortile dell’avvocato De Maria in via Mannone a Castelvetrano (TP) una messinscena allo scopo di simulare un conflitto a fuoco con i carabinieri.
La notizia, viene diffusa con toni trionfalistici ed è una bomba: Salvatore Giuliano è morto!
A scoprire che ad ucciderlo sarebbe stato il suo luogotenente, erroneamente definito cugino, Gaspare Pisciotta, sarà successivamente il giornalista Tommaso Besozzi che, sbugiardando i carabinieri, rivelerà la verità: Salvatore Giuliano, è stato ucciso da uno dei suoi “picciotti” per denaro e viltà.
Con due colpi di pistola, Gaspare Pisciotta, aveva scritto la parola fine alla storia dell’ultimo bandito siciliano che, forse più di ogni altro, aveva impersonificato le grandi contraddizioni di questa terra, creandosi fama di feroce bandito ma anche di novello Robin Hood.
Con lui si chiudeva una delle pagine più sporche, ma insieme leggendarie e romantiche, della storia del banditismo in Sicilia.
Ma non finivano certo con lui, misteri e segreti così squallidi e orrendi, da dover essere per sempre taciuti e Gaspare Pisciotta, tratto in arresto, durante il processo di Viterbo dalla gabbia urlerà: “Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Si riferiva al patto stretto con il colonnello Ugo Luca o a fatti ancor più gravi, come quello di Portella della Ginestra?
Questo, non potremo mai saperlo, poiché prima che potesse concretizzare le sue accuse , dinanzi al procuratore Pietro Scaglione (che verrà assassinato dalla Mafia nel 1971), Pisciotta verrà ucciso all’interno del carcere dell’Ucciardone, tramite un caffè alla stricnina…
Se la messinscena dell’uccisione del bandito Turiddu Giuliano, aveva lo scopo di dimostrare che era stato il governo a vincere, non servì a nulla, poiché se il governo vinse, in realtà lo Stato perse.
Quello Stato, che promosse successivamente quei servitori che, come i vari Luca, Perenze ed altri, a prescindere dai metodi usati, avevano comunque contribuito seriamente alla lotta al banditismo, in verità, lo fece solo per coprire una delle pagine più vergognose della nostra storia.
Purtroppo, dopo Giuliano, altre pagine sporche di sangue innocente e di vergogna, si sono aggiunte.
A cominciare dagli anni di piombo, con gli attentati terroristici dietro i quali spunta sempre una pista che porta a servizi deviati italiani e non, allo Stato, al potere politico, mafioso, imprenditoriale, per finire con le storie di mafia e pentiti e con le stragi come quelle di Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino.
Che Salvatore Giuliano sia stato bandito o eroe, lo lasciamo decidere a chi legge.
Quel che è certo, è il fatto che Giuliano non scelse motu proprio di diventar bandito, così come, non lasciò agi domestici per abbracciare una bandiera ribelle.
Fu, è vero, il più famoso bandito italiano della storia, ma lo diventò per tutta una serie di circostanze e venne poi utilizzato sia dalla mafia che dalla politica, senza neppure rendersi conto che gli unici veri innocenti (spesso inconsapevolmente utilizzati anche loro), erano proprio coloro che egli uccideva nel corso delle sue imprese, ritenendoli i nemici dei sogni di un popolo.
Sulla sua tomba, un mese dopo la sua morte, vennero scolpiti i versi che Maddalena Lo Giudice disse di avere avuto personalmente dal bandito:
“Poveri versi miei d’amor beati
nel meglio del gioir siete periti
sorgeste fieri ma sfortunati
e come uccello nei boschi siete spariti”.
Un dubbio: ma se i versi, furono veramente il testamento che Salvatore Giuliano lasciò a Maddalena, perché non potrebbe avere lasciato anche un memoriale? E cosa avrebbe scritto?
Molte risposte, potremo averle solo nel 2016 – sempre che ulteriori dubbi non vengano alimentati dall’esito dell’esame del Dna – quando gli atti che riguardano Salvatore Giuliano e la sua banda, non saranno più coperti dal “Segreto di Stato”.
Gian J. Morici
VIAGGIO A TORONTO
Siculiana 25 marzo 2010
Alphonse Doria
“Eccellenza
Non desidero essere coinvolto nelle curiosità che mi potrebbero circondare (almeno per il momento).
Però per quanto riguarda la posizione religiosa di Salvatore Giuliano, devo affermare in qualità di sacerdote che il giovane è morto con il perdono di Dio. Sono del continente e qui lo conobbi due anni a dietro circa, perché mi cercò. Confessò i suoi errori dei quali era relativamente responsabile. Preoccupato solo di salvare sua madre. Deciso a non fare del male a nessuno, ma non a costituirsi: due mesi mi cercò in Isola ed io per salvare un’anima lo esaudii. Si confessò pentito, quanti pochi così ne vidi, mi promise che non avrebbe più sparato salvo legittima difesa, promise come un bambino per paura del castigo di Dio, promise di vivere ramingo e di accettare la morte alla prima occasione in espiazione dei suoi mali.
Lo consolai povero figliolo e lo assolsi, assicurandogli il Paradiso.
Desiderava la comunione ma non mi fu possibile accontentarlo, dato che io non volevo essere troppo notato in Palermo.
E’ però probabile che l’abbia fatta in una chiesetta che io gli indicai di buonora.
Sicuro di non rivedermi più, lasciandomi mi baciò dicendomi: che sarà cosi come me l’ha promesso, ci rivedremo lassù. Dio voglia che sia una pecorella del suo ovile ritornata in seno a Dio. Non sempre il giudizio degli uomini è simile a quello di Dio.
Sta ora a V.E. se è il caso o meno di dare consolante notizia alla sua vecchia madre con autorizzare suffragi.
Umilmente in. G.C.
Padre Agostino Reni
Via Pescara Milano – Luglio idì 1950”
(Lettera scritta nel luglio del 1950 da padre Agostino Reni, un prete milanese, al vescovo di Monreale Ernesto Filippi)[1]
Dopo venti anni, era arrivato dal Canada Vicenzu Pumadoru. Lui dice di essermi cugino, ma non ho mai riscontrato questa parentela, poco importa. Lo chiamavamo così perché vendeva pomidori per le strade e abbanniava: “Pumadoru! Pomadoru!”. Mi ricordo che canticchiava con la musichetta dei bersaglieri questa canzoncina: [2]“Garibardi sutta u’ ponti chi vinniva pumadora, la valanza ‘un ci pisava Garibardi si la minava.”
Dieci anni fa, non lo potrò mai più dimenticare, quella mattina del 7 aprile del 1984, ci fu un trambusto tanto, uscimmo tutti dal bar, era scappato dal macello di don Pasquale Marchetta un vuteddu.
Don Pasquale stava sparando in testa al povero animale, segnato dal suo destino, quando la bestia all’improvviso si mosse e lui la colpì di striscio. Il vitello fuggì via a testa bassa caricando chi gli stava davanti. Non era la prima volta che succedeva. Così quella bestia ferita correva per le strade di Camico.
Chi chiudeva le porte e s’affacciava dai balconi, chi invece correva incontro all’animale per catturarlo. In realtà, ogni volta, s’innescava un’aria di festa tra tutti noi, si risvegliava nei nostri animi qualcosa di antico, tanto da interrompere qualsiasi attività in corso e così improvvisare questa specie di corrida. Chi correva di qua, chi di là, le grida: “Cca è!”. I picciotti si paravano davanti la bestia che caricava, spaventata e inferocita. E’ capitato che qualcuno andò a finire scornato in ospedale. Poi si riusciva in qualche cortile a bloccarlo e così infine, stanco per il sangue versato dalla ferita e per le corse, veniva immobilizzato e ucciso. Ognuno a tal punto tornava alle sue cose.
Quella mattina Vicenzu Pumadoro, preso dall’euforia di quella corrida paesana, prima si tracannò un bel bicchiere di marsala a l’uovo, e poi guardando le fotografie, mise la mano su quella di Giuliano, disteso a terra in quel cortile di Castelvetrano e mi disse tistiannu:
-Cuscì, chistu ‘un è Giulianu!- Pensai, senti che minchiata sta sparando questo …
-Giuliano è ancora vivo!-
-Cuscì, ma ti rendi conto di quello che dici?
-Io mi sono preso il caffè con lui, mille volte, e abbiamo parlato del più e del meno. E’ a Toronto, sta bene, si gode la vecchiaia, si fa la sua partita di populu a carte, non parla molto, ma quello che dice ha la sua importanza.
Questa notizia è stata come una rivoluzione mentale. Credergli o non credergli? Non riuscivo più a dormirci sopra e più cercavo di non pensarci più mi si presentava davanti con tutta la forza sconvolgente del mistero che avvolge la storia di questa terra nostra di Sicilia.
Vicenzu Pumadoru, insisteva, raccontandomi che una volta era riuscito a fargli mostrare le due ferite di moschetto all’addome, quelle di Quarto Mulino. E le ferite c’erano, tutte e due!
Le mie due figlie: Costanza e Lucrezia, sono più pazze di me, così insieme ai mariti, mi organizzarono il viaggio per Toronto. Il 19 marzo 1986, al mio 55 compleanno mi hanno fatto la sorpresa, il biglietto aereo!
-Ma ju non so nemmeno dove andare? Non abbiamo parenti!
In realtà, loro avevano pensato ad ogni minimo particolare.
Non vi racconto il volo in aereo, perché la storia è troppo lunga. Sono stato con le orecchie attupate per tutto il viaggio, sentivo come se fossi dentro ad una bolla di sapone. Palermo, Roma, Amsterdam, Toronto. Da lassù ho visto i ghiacciai e sembrava non finissero mai.
Arrivai alle quattro di pomeriggio, all’aeroporto trovai i cugini di Gianluca, mio genero, il marito di Lucrezia. Tutto era grande! Loro, i cugini, erano gentilissimi, parlavano siciliano, però a modo loro ed erano contenti di conoscermi.
Salii su quella macchina che era per tre volte una di quelle nostre. Quando ho detto a loro che con quell’auto sicuramente in piazza non potevano venirci. Si misero a ridere come pazzi e dissero quella famosa barzelletta ritrita:
-In America le strate le chiamiamo stritti e ammeci sono larghe, in Sicilia le chiamate strate e ammeci sunnu stritti!
Fece finta di averla ascoltata per la prima volta e per essere cortese risi come un imbecille.
Passai due settimane con questa famiglia pazza sempre in movimento, senza un attimo di tregua. Mi fecero conoscere amici, familiari, mi sono sentito veramente importante.
Nel loro scantinato avevano una vera armeria. Più di dieci fucili con relativi mirini di precisione. Poi attrezzature per costruirsi loro stessi le munizioni. Non solo, avevano una specie di poligono con tanto di sagoma, movibile. Insomma mi fecero sparare con diversi fucili e pistole. E visto i risultati mi ci trovavo. Rimasero delusi, quando ho dovuto dichiarare la mia avversità alla passione delle armi, anzi, ne ero proprio contrario.
Non per questo motivo hanno desistito, una mattina prestissimo, di trascinarmi a caccia. Mi portarono su una montagna, mi fecero fare tanta di quella strada che non mi sentivo più le gambe. Poi finalmente uccisero il loro cervo e così siamo tornati.
Non ho capito quale fosse il loro lavoro, la loro attività economica, perché parlavano solo di caccia, pesca e di un camper, con il quale si giravano il Canada e gli Stati Uniti. Ma me ne sono rimasto con la curiosità dentro lo stomaco e non chiesi a loro mai spiegazioni, da buon siciliano.
Così mi portarono pure a pescare su la loro imbarcazione che quanto era grande sembrava un piscariggiu.
Il padre e la madre se ne stavano in giardino ad arrustiri carni nni la tannura. In quella famiglia avevano tutti la passione di mangiare carne a più non posso. Carnivori dai bambini agli anziani! Questa è l’America che ho visto io.
I due cugini mi hanno dato una grandissima soddisfazione. In quei giorni il discorso verteva continuamente sulla Sicilia, la sua storia, la politica e tutto ciò che un sicilianista come me, incomincia a vomitare fuori con gli occhi spirdati di pazzo. Si, perché mi sono visto una volta per caso allo specchio del bar, mentre parlavo di questi argomenti, e vi giuro che mi sono conosciuto appena. Che hanno fatto i due cugini? Un giorno siamo entrati in un locale dove vi era un baffuto biondo e capelluto, uno di quei vichinghi uscito fuori dalla pellicola di un film, e si fecero tatuare tutt’e due una grande e bella trinacria! Joe, sul cuore e Lillo sull’avambraccio. Volevano che anch’io ne approfittasse di quel maestro, anche se fui molto tentato, ho riflettuto che non era per me più l’età di queste pensate.
Tutto questo succedeva tra una visita e l’altra al bar Venezia. Loro non lo frequentavano perché era molto distante da dove abitavano, anche se le distanze per loro erano relative. Riflettevo che per spostarmi da Camico e andare a Palermo, che so, o a Catania, per me, quello era un viaggio da organizzare per benino. Loro si spostavano per lunghissimi tratti, da uno stato all’altro, senza ragionarci minimamente.
Comunque ogni giorno eravamo lì, facevamo qualche partita a carte con i frequentatori, con la speranza di quel fatidico incontro. Niente di niente. Ormai ero entrato in confidenza. Vi erano Siciliani, Calabresi, Pugliesi, insomma ci capivamo tutti.
C’era chi si metteva da parte a discutere, a me non riguardava, così mi allontanavo per non ascoltare. Con il mestiere mio queste cose o te le impari o hai chiuso bottega da tempo.
Questo mio modo di comportarmi fu osservato da chi di dovere e questo bastò per avere dato una buona impressione. Tanto che, nei giorni successivi, uno anziano lì presente osservando la mia trinacria d’oro all’occhiello della giacca, mi chiese se ero del partito di Finocchiaro Aprile. Io gli risposi:
-Di Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni, Canepa e Giuliano!
Ormai era l’ultimo giorno, ero preso dalla delusione, di non avere ricevuto nemmeno una conferma della presenza di Giuliano in quel bar, anzi, mi giuravano che non avevano visto nessuno con quelle caratteristiche. I cugini mi avevano lasciato lì, avevano impegni loro, mi venivano a prendere fra un pajo d’ore. Ero passato ai saluti con alcuni di loro e mi ero confidato, della mia speranza, sicuramente l’amaro che avevo dentro usciva fuori. Ad un certo punto il ragazzo biondiccio al bancone, mi chiamò:
-Mister Giovanni! Venga, c’è qualcuno che le vuole parlare.
Il calabrese seduto accanto, sorridendomi mi chinò la testa per dirmi: vai!
Seguii quel giovane che mi indicò, una porticina, che tramite una scala stretta e un corridoio, portava in un appartamento privato, un signore in giacca e cravatta mi disse di accomodarmi, facendomi strada. Pensai, ci siamo! Quando entrai vi era un elegante salone e proprio sopra il salotto vi era uno stemma dorato, che io conoscevo abbastanza bene: l’aquila e il leone rampante che sostengono il medaglione con tanto di trinacria circoscritta. Io gli disse a quel signore:
-L’astuzia dell’aquila, la forza e il coraggio del leone, per liberare la terra di Trinacria!
-‘Ass’a benedica!
Dalla porta accanto era entrato, un elegante signore anziano aiutato dal suo bastone, con atteggiamento austero, nonostante dritto con la fronte larga e un bel sorriso giovane.
Il sangue mi salì subito tutto in testa, fu un colpo e dentro me pensai: E’ lui!
-Mister Giovanni! Paisà!
Mi sono sentito scuotere la giacca era il barista, che mi svegliava. Lo stress, la stanchezza mi ha giocato un brutto scherzo, e mi sono appisolato sul divano in fondo al bar. Non so per quanto, dieci minuti? Un ora? Ed ho sognato, è stato solo un sogno. Mi alzai, scuotendo la testa, come un asino che non ha voglia di muoversi, stesi un po’ le gambe e mi avvicinai al bancone:
-Me lo fai un bel caffè? Espresso però!
Mentre sorseggiavo il mio caffè, dando una taljata panoramica a tutto il locale, proprio nel tavolo di fronte vi era un gruppetto di tre anziani. Uno di questi con una elegante coppola nera in testa, il bastone di legno in mano e due occhiali larghi con i vetri giallo scuri, faceva finta di non guardarmi. Sorseggiai ancora un po’ quel caffè, che non aveva il sapore di quello nostro, e mi avvicinai a quel tavolo.
-Scusate, posso sedermi con voi?
L’anziano con gli occhiali mi fece cenno con la testa acconsentendo la mia richiesta. Erano tutt’e tre in attesa di una mia spiegazione.
-‘Ass’a benedica. Sono venuto dalla Sicilia, per incontrare una persona speciale.
Scrutavo quel signore anziano, che rimaneva nel suo riserbo totale e da dietro i vetri degli occhiali si scorgeva il suo sguardo enigmatico, il quale con la mano mi fece cenno di proseguire.
-Un mio parente, mi disse che questa persona speciale l’avrei trovata proprio in questo bar. Già da quindici giorni che sono qui, si è fatto il tempo di tornare a casa, con mio rammarico, senza successo.- Mentre frugavo con lo sguardo nel viso dell’anziano per trovare una somiglianza con Giuliano, anche minima, che non trovavo, però sentivo dentro di me, che quella persona era lui. Una semplice sensazione. –Sono sicuro, non mi chieda perché, che vossia mi può dare una mano d’aiuto.
L’anziano stette quasi un minuto, che mi sembrò una eternità, a fissarmi dentro gli occhi, dopo si scompose un po’ e mi disse in perfetto italiano e con voce ferma:
-Questa persona per lei deve essere veramente speciale, visto che ha fatto tutto questo viaggio per incontrarlo. Mi tolga una curiosità, come si chiama questo suo parente?
-Vincenzo Taormina, di Camico.
-Vincent Pumadoru?- E sorrise.
Quel sorriso, come nel sogno di poco fa, mi diede la certezza che era lui.
–Vicenzu Pumadoru … quello che quando arrivava si metteva a banniari davanti la porta “ah! chi bellu pumadoru chi haju! Accattativi u pumadoru!”
Dentro al bar si misero tutti a ridere, ricordandolo, pure il barista, mentre stava pulendo alcuni bicchieri da vino con il tovagliolo.
La mia perseveranza e la mia intuizione si erano convogliate in quella persona ed ero certo che quell’anziano, ora che aveva tolto la maschera enigmatica in quel sorriso aperto, era Salvatore Giuliano! Mi sentii come un brivido per tutta la schiena, una eccitazione come quando si percepisce che un momento va vissuto con interezza, perché, quel preciso momento, fa parte della grande storia e non della meschina quotidianità.
Guardai attorno e attentamente i due anziani, così, con un soffio di voce e per giunta incerta, fissandolo negli occhi, gli sparai:
-E’ vossia?- Ci fu silenzio, il barista rimase come in un fermo immagine. –E’ vossia, Salvatore Giuliano?
L’anziano abbassò gli occhi e con la testa fece segno come dire: non è possibile.
-Ma lei crede a Vincent Pumadoro? Quello è un pazzo completo, uno che gli piace scherzare, sparare minchiate all’impazzata.
Ad un tratto si fece serio e con tono secco sparò:
–NO!
Quel NO mi piegò in due come se fosse stato un cazzotto dato allo stomaco.
-La vede questa trinacria? Io … è da bambino che credo nell’idea di una Sicilia libera. E non ho mai pensato, un solo istante, che Giuliano abbia sparato al suo Popolo. Ed ho pianto lacrime amare quando hanno parlato della sua morte. Ora se lei fosse il colonnello Giuliano e mandasse via uno come me, senza farsi riconoscere, vossia rinnegherebbe il suo Popolo, la sua Terra, ancora una volta.
Mi uscirono quelle parole come un raffica di mitra, fissandolo dritto a gli occhi. Lui si tolse gli occhiali e mi appizzò lo sguardo addosso. Il suo volto sembrò subire una metamorfosi assomigliando ora ad un’aquila. Incuteva timore!
-Ho detto no, ed è vero. Ma la verità ha tante facce come un diamante. Ora tu vieni, qui insieme a quegli altri giovani, parenti di tuo genero, perché Vincent Pumadoru ti raccontò di avere visto Salvatore Giuliano, e ti vuoi levare lo sfizio di scoprire la verità! Come se la verità fosse una prostituta con le cosce aperte pronta a farsi fottere di tia!
-Vossia sa, cosa potrà mai significare sapere che Giuliano l’ha fatta in barba a tutti, ancora una volta?
-Cosa potrà significare? Che Giuliano ha venduto la sua Terra, il suo Popolo, per avere salva la vita. Un meschino, un traditore!
-La lotta per l’indipendenza ormai era finita!
-La lotta per l’indipendenza non finisce mai, perché anche dopo averla conquistata la si devi difendere!
-La sua figura storica, il suo ruolo ormai era finito. Era finito il tempo della guerriglia … Vossia è Giuliano!
-No!
-Vicenzu Pumadoru, mi disse che le ha visto pure le ferite!
-Quel fituso, pazzo di Pumadoru, mentre ero a cesso con le brache calate, entrò e mise le dita sopra le mie cicatrici, come San Tommaso a Gesù risorto! Ma quelle non sono ferite d’arma da fuoco, quelle sono frutto dell’operazione chirurgica che mi sono fatto fare alla cistifellea, negli Stati Uniti, dieci anni fa. Mi hanno operato con l’ultima tecnologia dell’epoca.
Gli altri due si misero ghignare conoscitori dell’accaduto. Mentre guardavo attentamente avevo ormai la certezza che quel volto con le rughe, quello sguardo così penetrante e quel sorriso aperto, erano di Giuliano. Oppure ero io che volevo credere di non avere attraversato il mondo inutilmente? Era più di un intuito, o una impressione, era qualcosa di oggettivo. Per questo motivo mi ero rattristito così tanto che mi si leggeva nell’espressione del mio viso, così piegai il capo sconfitto.
Ad un certo punto, si alzò in piedi poggiandosi al bastone, mi fece segno di seguirlo e ci siamo messi in un tavolo in fondo.
Il barista mise della musica di flauto e chitarra, una voce maschile cantava: “Palumedda janca janca chi ci porti ‘nta sta lamba?” Rispondeva una voce femminile: “Ju ci portu pani e vinu fazzu la zuppa a lu Bambinu!”
Le mura del bar, fino a due metri d’altezza, erano coperte di pannelli di legno scuro, pertanto, in fondo, dove ci eravamo seduti, non vi era molta luce, così u zzu Turiddu si tolse gli occhiali e a schiena dritta mi fissò in un silenzio misterioso, che valeva più di mille parole, quel silenzio impietriva. Si! era proprio Salvatore Giuliano e nemmeno mille dei suoi no avrebbero potuto cancellare quella mia convinzione.
-Io ho conosciuto Giuliano, molto da vicino, ma l’ho conosciuto nella maniera giusta attimi prima la sua morte. Porto rispetto alla sua memoria più di chiunque altro.
-Lo sa quanti libri articoli di giornali ho letto? Quante fotografie ho visto e rivisto tante volte, tanto che qualcuna la ho esposta nel mio bar e qualche omu di liggi ha fatto opposizione, ma io, non ne ho voluto sapere. Mi sono fatto un chiodo fisso, di tutta la questione, perché la lotta indipendentista siciliana è finita con vuscenza. Chi ha architettato Portella delle Ginestre, ha lasciato la firma, ma l’ha ben congeniata per uccidere moralmente l’eroe della liberazione del Popolo Siciliano. La sua morte fisica poi è servita per la rassegnazione totale. L’eroe, l’inafferrabile, è stato eliminato, stramazzato a terra, tradito e ucciso, punto!
-Leggo nel tuo cuore attraverso i tuoi occhi e capisco il tuo dramma, per questo oggi voglio farti dono della mia verità.
Quando ho udito quelle parole, il cuore mi si gonfiò e senza volerlo mi sgorgarono due lunghe lacrime che sentii solcarmi il viso. Così presi il fazzoletto dalla tasca e mi asciugai. Ero pronto a credere ad ogni cosa di quella figura austera di anziano, dal volto imperturbabile, mentre il suo corpo lievemente segnava le sue parole.
Riprese a parlare, dopo un altro dei suoi silenzi profondi.
-Certi uomini, il destino lo hanno scritto nei loro cuori. Quando poi nella loro vita ci si presenta il bivio, quel destino, come una forza, prende il sopravvento! E volenti o nolenti, deciderà il percorso da intraprendere di quegli uomini. Noi Siciliani lo chiamiamo destino, forse è il volere di Dio, il daimon platonico, oppure la Terra che si ribella nei cuori dei propri figli. Così, la Sicilia, al suo figlio Turiddu Giulianu, ha dato quella forza, quel coraggio e il profondo sentimento dell’onore, da divenire concretamente la ribellione alle angherie subite, come quelle degli uomini soggiogati dai padroni, la ribellione contro un colonizzatore politico che stava riprendendo le forze dell’oppressione. Turiddu Giulianu è la ribellione al torpore della rassegnazione del Popolo Siciliano. Per questo ancora oggi hanno paura al solo ascoltare il nome di Turiddu Giulianu, perché ancora oggi, nonostante tutto, è vivo nel cuore di ogni Siciliano che subisce ogni ingiustizia sociale e politica. In ogni Siciliano costretto a subire le mortificazioni per i diritti sociali negati, costretto a subire ogni genere di sopruso e illegalità, vi è un intimo segreto, un muto desiderio di riscatto e il loro pensiero va dritto all’icona del riscatto siciliano: Turiddu Giulianu!
-I giovani Siciliani, però, spesso li vedo con le magliette di Che Guevara …
-Se Giuliano fosse stato comunista allora il suo mito sarebbe diventato uno strumento di propaganda dei comunisti di tutto il mondo. Ma non lo fu, come non era, anticomunista. Lottava i ricchi, togliendo i loro soldi, era protetto dal proletariato, non per paura, ma per amore! Basti pensare che il suo luogotenente era un comunista accanito: ‘Aspanu! Poi, quando ci fu la scissione nel MIS, Giuliano si mise con il MIS-DR di Nino Varvaro, comunista, alle elezioni del 1947, fece un patto elettorale con il maggiore esponente del PCI, Girolamo Li Causi. Furono l’evoluzione di quei fatti, come il patto non mantenuto da Li Causi, l’inganno politico e il progetto anti indipendentista del PCI per ordini avuti dall’Unione Sovietica, che lo trasformarono in un agguerrito nemico dei dirigenti comunisti.
-Portella delle Ginestre?
-Quando Giuliano si è reso conto della tragedia di Portella, ha capito con amarezza come quelle vittime sono state sacrificate al potere della nuova Italia. Quello è stato l’inizio della “guerra fredda”, quello è stato l’atto di podestà per la Sicilia alla mafia nella funzione gladio. Anche il PCI ha utilizzato quelle vittime. I dirigenti siciliani sapevano, ma hanno taciuto, non hanno avuto il coraggio della presenza, hanno utilizzato anche loro quei contadini, proletari come vittime sacrificali per iniziare una campagna di vittimismo eroico, per avere concesso quella fascia di spazio di legittimità, omologazione e potere, rassegnati ormai, ad uscire dal potere di Stato. E nella commissione antimafia i compagni del PCI, il primo Li Causi, sapevano, ma omertosi hanno fatto silenzio, sulle dimensioni internazionali e il coinvolgimento della DC d’allora accordata con la mafia, scaricando tutto su Turiddu Giulianu.
-Vossia ancora ha questo risentimento su Li Causi.
-Rimani convinto che io sono Giuliano … Ecco cosa è successo in quel strano momento storico della Sicilia. Era la primavera del 1950 e da parecchi giorni mi sentivo osservato in paese, la sera in piazza, persino in campagna mentre lavoravo, avevo la sensazione che qualcuno mi stesse spiando. Era vero! Mentre ero alla robba, mi sentii salutare, erano tre persone, armati di mitra, due li conoscevo così bene anche se non li avevo mai incontrati: ‘Aspanu e Giuliano. Mi sono sentito il sangue tutto in testa. Il sorriso di Turiddu mi rasserenò, mi chiese dell’acqua, io presi la lancedda e gliela porsi. Lui ringraziò e fece bere prima ad ‘Aspanu, poi bevve lui. ‘Aspanu, con espressione di meraviglia, si rivolse a Turiddu: “Guardato da vicino, fa impressione! Questo è perfetto, non è come gli altri due …”
Io non capivo, ma ero così agitato, speravo solo che se ne fossero andati al più presto. Invece Turiddu fece cenno di sederci in qualche parte. Mi guardò a lungo, poi mi chiese il nome.
“Ti chiami Turiddu come ammia!”
“Pure il nome ha lo stesso!” Intercalò ‘Aspanu. Giulianu mi spiego che dovevano fare un film su di lui e avevano bisogno un attore che gli somigliasse, ed io corrispondevo a quelle caratteristiche. Mi opposi cercando varie scuse, la terra, la famiglia. Mi avrebbe pagato una cifra che rimasi a bocca aperta e che per la famiglia sarei rimasto in contatto. Insomma accettai. Passai quei mesi con loro. Giuliano aveva una camera da presa e le scene le girava personalmente. Mi precisò che il film vero e proprio doveva girarlo un famoso regista di Roma. Ricordo che un giorno mi fecero fare la parte di Turiddu che caduto in una imboscata dai carabinieri rimane colpito dai loro proiettili e ucciso. Dovevo fingere di morire, urlare, Aah! E stramazzare a terra. Quella era l’ultima scena. Rimasi sconfortato per la fine del film. In fondo una fine inaspettata e che sicuramente avrebbe gettato nello sconforto il Popolo Siciliano. Infondo era finzione, lui era vivo con tutta la sua energia e questo mi rassicurava. Quasi tutto si svolgeva, in un terreno e un caseggiato, forse di Alcamo, sicuramente in provincia di Trapani. Turiddu e Pisciotta si allontanavano interi giorni, rimanevo con alcuni dei loro picciotti. Ad un certo punto capii di essere quasi un loro prigioniero, perché ero guardato a vista.
Intanto i mesi passarono ed ho notato un cambiamento sostanziale, su tutti quanti, non regnava più quell’ordine di prima. Giuliano se ne stava a scrivere a volte intere giornate, Pisciotta si vedeva più raramente. Un giorno mentre Giuliano era via, ho tentato la fuga, mi trovai uno dei guardiani addosso con la sua pistola puntata sulla mia testa. Da quel giorno incominciarono a legarmi le mani e i piedi. Ho avuto certezza della cruda realtà. Ho fatto mille costruzioni con la mia mente, ma non concepivo quale fosse il loro programma. Quando poi mi trasferirono a Castelvetrano mi dissero che bastava una mia mossa falsa e finivo la mia vita crivellato come un colabrodo. Ero rinchiuso in una stanza al piano di sopra, uno di quei giorni interminabili e senza data mi venne a trovare Giuliano, mi liberò e poi guardandomi, come lui sapeva fare, mi disse:
“Io sono uomo d’onore e mantengo sempre la mia parola. Devi avere fiducia e fare, senza cercare spiegazioni, quello che ti ordino!”. Abbassai la testa acconsentendo, ma tremavo dalla paura. Da quel giorno stavo sempre accanto a lui, ho ascoltato il memoriale mentre lo scriveva e mi mise a conoscenza pienamente di ogni cosa, sia a me che al Di Maria. Quest’ultimo l’ho conosciuto completamente diverso da come è stato descritto in seguito, dalla stampa e dai libri: taciturno e solitario. Invece era molto eloquente con Turiddu e con me, e di tanto in tanto non mancava di intercalare umoristicamente con qualche battuta. Forse avrà messo a disposizione la sua dimora per qualche favore che doveva a Marotta, lo avrà fatto anche per una sostanziosa ricompensa, ma una cosa è fuor di dubbio: aveva una ammirazione e stima per Salvatore Giuliano grandissima. Gregorio Di Maria con il suo carattere comunicativo era un uomo di cultura, piaceva leggere e conversava con Turiddu di politica, di storia tra i due vi era complicità e rispetto.
Sono rimasto colpito dalla profonda fede in Dio di Giuliano, è capitato più di una volta di accorgermi che era assorto in preghiera. E’ questo il terribile assassino che parlano i giornali di tutto il mondo? Mi chiedevo, come è possibile?
L’inizio di luglio fu un continuo succedersi di eventi, di incontri, di comunicazioni. Confesso che avevo una paura fortissima che s’insinuava dentro la pelle fino alle ossa. Ero terrorizzato di come mi guardava ‘Aspanu, tanto che ero deciso a fuggire alla minima occasione. Così avevo fatto finta di andare al gabinetto e invece mi ero partito per l’uscita secondaria. I due avevano intuito e mi bloccarono all’istante. Fui legato di nuovo mani e piedi con del filo di ferro sopra il letto nella stanza di sopra.
La sera del quattro luglio sentivo parlare giù ‘Aspanu e Giuliano, in maniera concitata, senza minimamente preoccuparsi che qualcuno di fuori potesse ascoltarli. Poi Giuliano salì e mi disse con tono deciso:
“Ascoltami attentamente perché non posso ripetere quello che ti sto per dire. Ora io ti libero, prendi i vestiti che sono nell’armadio e indossali, compreso il cappello, qui c’è questa busta con questi documenti e questi soldi, prendi pure questo orologio. Sali per le scale e dalla finestra ti sistemi sul tetto e aspetta, come senti degli spari, corri per i tetti e scendi dall’altro versante e scappa! Non ti fidare di nessuno solo di te stesso e stai lontano da strade e centri abitati.”
Mi slegò, mentre lui si mise in mutande e canottiera, volle essere legato a posto mio, capii cosa stava succedendo e mi commossi profondamente. Gli chiesi perché lo stava facendo.
“Non mi sarei macchiato mai del sangue di un innocente, nemmeno per salvare la pelle. E’ l’ora di uscire di scena, ma non sarei mai andato via dalla mia Terra. Esco di scena a modo mio.”
-Mi chiese di promettergli che quando sua madre, sarebbe passata a miglior vita dovevo portarle un suo saluto. Così feci nel 1971, arrivai a Palermo e con un taxi andai a Montelepre, ho onorato il mio impegno omaggiando la salma, ritornai immediatamente, senza dare opportunità ad alcuno di chiedermi qualcosa. Ho avuto tempo per porgere una preghiera nella tomba di Salvatore Giuliano. Quando ero in volo, pensavo a Mattia Pascal di Pirandello, solo che io, al contrario del personaggio, sapevo chi c’era lì dentro veramente! Bastò quella mia presenza per accendersi la fantasia di qualcuno e credere nel mito di Giuliano ancora vivo.
-Quella notte del 4 luglio 1950, gli baciai la mano e andai, con il cuore rotto, salii sopra il tetto. Il cielo era ricolmo di stelle, il cuore mi batteva all’impazzata, ero teso all’ascolto di quello sparo che non tardò ad arrivare, tre colpi di pistola, forse quattro. Corsi sulle tegole e scesi dall’altra parte dove in lontananza vidi una 1100 nera. Scappai furtivamente dalla parte opposta. Mi nascosi nelle campagne circostanti, seguivo le sue parole e non mi fidavo di nessuno. Così, poi, riuscii a farmi una vita, diciamo normale. Ben sapendo che un incontro con Giuliano la vita te la cambia. In questi anni mi spostai moltissimo ed è ormai da tempo che sono a Toronto. La fede in Dio mi ha molto aiutato. Mi sono chiesto spesso e volentieri: chi sono?
-A volte ho creduto di essere io il vero Giuliano. Di sicuro qualcosa di lui mi è rimasto dentro la mente. Tanto che, quando vido le foto di quel cortile, che tante volte avevo guardato dalla finestra, mi riconoscevo in quel corpo a terra. Era una parte di me che era rimasta lì, tra la polvere di quei sogni uccisi, da quei falsi gesti e sorrisi degli uomini di uno Stato presente solo nelle tragedie di un Popolo che ha perso il padre, il figlio o il fratello.
-In tutti questi anni ho tentato di continuare la sua opera, ma mi resi conto che chissà quanto tempo dovrà passare ancora per rinascere un altro Giuliano. Ho potuto solo incentivare economicamente associazioni siciliane di cultura e qualche giovane promettente negli studi, poca cosa, niente!
-Non so chi ha sparato materialmente a Giuliano, se fu Nunzio Badalamenti entrato dall’altra parte di casa Di Maria, oppure Pisciotta, o chiunque altro sia stato, però ho capito che il ruolo di ‘Aspanu era stato ben congeniato con Giuliano, a millimetro. Il ruolo di ‘Aspanu era quello di Giuda, il traditore, solo così potevano riuscire ad ingannare tutti e sostituire un corpo per un altro, quello del sosia con quello di Giuliano. Forse nei loro progetti la morte del personaggio Giuliano del film doveva corrispondere alla mia morte fisicamente autentica e documentata per la polizia, per il commissario Verdani, chi sa? Avariato questo progetto si attuò: il gioco delle verità in scatola.
-Nella scatola della verità del C.F.R.B.[3], cioè, del conflitto a fuoco nel cortile di Castelvetrano, del Giuliano ucciso dai carabinieri del colonnello Luca e del capitano Perenze, rimasta ancora oggi riconosciuta e unica dallo Stato Italiano; vi è un’altra verità, quella del tradimento di Pisciotta. Anche questa ne contiene un’altra, quella dell’accordo tra Giuliano e Verdiani per la sostituzione con il sosia e il suo espatrio. La verità nascosta dentro a quest’ultima è quella di ‘Aspanu che ha recitato l’ingrato ruolo del traditore del suo fratello di sangue Giuliano, per potere così consegnare al C.F.R.B. un corpo morto e non un uomo vivo. Ma anche questa ne contiene un’altra ancora più forte, quella di Giuliano che si sostituì al sosia liberando quest’ultimo al posto suo. Giuliano così morì spiritualmente sereno ben coscio del carnefice che si stava avvicinando e accennò un sorriso come dire: l’ultima parola è la mia!
A questo punto si fermò in uno dei suoi pesanti silenzi e guardandomi dentro, in fondo ai miei pensieri, per un bel po’, poi riprese a raccontare:
-Quando quel pazzo di Pumadoru incominciò a rompermi le scatole, mi ha inquietato veramente tanto da essere tentato di cambiare destinazione ancora una volta. Rimasi e sbagliai, pertanto dovrò, alla mia età, spostarmi ancora, da qualche altra parte del mondo.
…
U zzu Turiddu finì così il suo racconto, ora non mi rimaneva altro che crederci oppure no. Intanto incominciava a farsi strada nella mia mente un dubbio: e se in questa verità, che mi ha testé riferito, fosse un’altra scatola dove si nasconderebbe un’altra verità ancora?
Mentre parlava il suo volto era impassibile, non cambiava minimamente espressione, non muoveva nessuno dei suoi muscoli facciali, però il suo corpo parlava, la sua mano prendeva le parole dall’aria attorno, la sua testa rafforzava con ogni movimento i suoi pensieri. Quell’anziano, che molto mi ricordava il poeta Ignazio Buttitta, aveva nelle sue rughe, la storia del Popolo Siciliano, con tutti i paradossi e i tanti misteri.
Arrivarono Joe e Lillo, ci trovarono ancora seduti in fondo, si avvicinarono e chiesero il permesso di sedersi. Lui calò la testa acconsentendo.
Gli chiesi se fosse stato possibile avere una fotografia insieme a lui. Mi regalò uno dei suoi sorrisi e Joe corse in auto a prendere la macchina fotografica. Lui si tolse la coppola rimase seduto ed io accanto feci il saluto indipendentista, ecco fatto! Ma non ne permise altre.
Quando fui sull’aereo, soddisfatto di quell’incontro, riflettei su ogni minimo particolare. Ad un tratto mi si bloccò nella mente la sua fronte e quella cicatrice vicino la tempia sinistra, la stessa che permise la giornalista svedese Tecla di riconoscerlo. E allora? Chi era quell’anziano? Sicuramente avrà avuto una spiegazione come per le cicatrici sulla pancia. Una probabile, quella che le erano state causate appositamente da un medico per somigliare ancor di più al vero Giuliano. Mi vennero dei dubbi: forse sarà stato solo un effetto di ombre?
Arrivato a Camico mi feci sviluppare un ingrandimento della fotografia e altre ancora di diverse grandezze. La cicatrice, in quella fronte così particolare, è cicatrice ed è lì presente, tutto il resto è Sicilia.
NOTA DELL’AUTORE
Questo racconto è pura fantasia, non ha la pretesa di essere una ipotesi possibile. Comunque sia, in quel corpo tra la polvere del 5 luglio 1950, dove anche la legge di gravità non era certezza scientifica, di sicuro ha cessato di esistere il Colonnello Giuliano, dell’eroica “Brigata Palermo” comandante dell’EVIS per la Sicilia Occidentale.
Al Popolo Siciliano, compreso me, piace credere, che quel giovane di ventotto anni, sia riuscito a scamparla ancora una volta, e rifarsi una vita nuova, normale, di buon padre di famiglia. Spuntando così, a farsi beffa del suo crudele destino iniziato in quel 2 settembre 1943 a Quarto Molino.
La storia di Salvatore Giuliano è quella di ogni Siciliano che esce fuori dalla riserva mentale, che chiamano sicilianità, simile alla riserva riconosciuta agli indiani d’America, per rivendicare la propria territorialità, scontrandosi inevitabilmente con chi ne ha il possesso, nel suo caso, prima contro l’Italia badogliana post fascista, poi l’Italia repubblicana. Questa è la lotta indipendentista, una lotta di territorio da riconquistare palmo dopo palmo. Per iniziare è necessario che i Siciliani abbiano il coraggio almeno di uscire dalla loro riserva mentale, da dove vivacchiano ormai da millenni e solo alcuni hanno avuto il coraggio di farlo, uno tra questi Ducezio nel 450 A.C., altri ancora fino a Giuliano dal 1944-50 A.D.
…
Giuseppe Sciortino Giuliano, ha realizzato la sua ultima fatica: VITA D’INFERNO – Cause ed effetti. La lettura di quest’opera fu tempestiva ed esplicativa, perché mi colmò alcuni vuoti importanti per completare questo racconto.
Ho trovato questo testo scritto con il cuore, in una prosa luminosa, senza ombre, da facilissima lettura partecipativa. L’Autore si è posto nella giusta distanza dello storico non escludendo la sua presenza critica ad alcuni fatti incresciosi. Il libro fa parte di quella letteratura alternativa a quella ufficiale e omologata dal potere istituzionale. Quell’altra cultura che si contrappone alle forme di propaganda massiccia del potere che detiene la sovranità territoriale e che bombarda continuamente l’opinione pubblica siciliana. Nonostante ciò, non riesce, però, a scalfire minimamente l’icona di Turiddu Giuliano nell’intimo di ogni Siciliano che non giace nella rassegnazione ed ha acceso il fuoco della ribellione alle varie ingiustizie sociali e politiche.
Nell’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano viene fuori un elemento di grandissima importanza: la repressione cieca e coloniale di uno Stato d’occupazione, che ha usato le proprie forze belliche e di polizia contro i Monteleprini, non risparmiando loro né la tortura, come mezzo per estorcere confessioni, né lo stupro e il saccheggio. I Monteleprini devono essere fieri del loro passato, come lo siamo noi Siciliani della loro eroica storia.
Certa letteratura non si pone nemmeno scrupoli su ciò che hanno dovuto subire cittadini inermi nelle mani di quella forza di occupazione militare a Montelepre. Cito uno per tutti: Il bandito Giuliano di Salvatore Nicolosi Edizione Brancato Editore – Catania 2005 a pagina 149 scrive: “Costui[4]fu messo alle strette; e per “mettere alle strette” i carabinieri non si facevano scrupolo di picchiare qualche volta i sospettati (metodo assolutamente condannabile, il quale però alla fine fruttava confessioni che, altrimenti, i più incalliti delinquenti mai si sarebbero abbandonati a fare).” Sicuramente penso che viene il volta stomaco quel “però” che, in un certo qual modo, giustifica la tortura come metodo e subita dai Monteleprini, dimenticando che sotto tortura anche lo stesso Nicolosi avrebbe confessato di avere sparato quel 1° maggio, insieme a Giuliano. Perché quel “mettere alle strette” era la “cassetta” di don Pasquale[5] e fare ingoiare acqua sporca e salata tramite una maschera antigas per poi sferrare pugni alla dome fin quanto l’ “interrogato” non accettava tutto quello che gli propinavano come confessione. Ora accettare questo significa dimenticarsi dei minimi significati dell’umanizzazione raggiunti della bestia umana.
Chi è Giuseppe Sciortino Giuliano? E’ un indipendentista dal primo battito del suo cuore. Figlio di Mariannina Giuliano e Pasquale Sciortino, nonché nipote di Salvatore Giuliano. Finito nelle italiche galere a otto mesi insieme alla madre. Poi nel 1980 fu processato e condannato per avere costruito uno cippo in memoria dei Partigiani dell’EVIS caduti.
Il 30 marzo del 2009 il presidente della Camera Gianfranco Fini inaugurando a Montelepre la targa in memoria dei carabinieri caduti nella lotta al banditismo nel periodo in cui visse Salvatore Giuliano, posta al centro del paese all’esterno del centro Polifunzionale in via Castrenze di Bella 14 disse:“Ricordare gli uomini in divisa che si sacrificarono contro il banditismo non e’ retorica, ma e’ un dovere delle istituzioni perche’ sono stati i primi a combattere nel nome della legalita’”[6]. Riflettendo su questa visita e queste parole non posso fare di confrontare Montelepre a Bronte. Anche a Bronte vi è una via dedicata a Nino Bixio.
Due città, due Popoli che si ribellarono e che hanno subito quell’ingiustizia storica con le esecuzioni sommarie a Bronte e con i soprusi a Montelepre. Due epoche storiche ed una sola Italia colonizzatrice che chiama la sua oppressione “legalità”.
Ricordo nella prima visita che feci a Montelepre, nel 1995, la sensazione che ho provato, mista tra commozione e riconoscimento, mi ritornavano alla mente le fotografie in bianco e nero dell’epoca dei fatti e i volti di quei Monteleprini. Non ho potuto fare a meno di legarmi al collo il fazzoletto giallo/rosso dei Volontari dell’EVIS. Poi, visitai i posti, le strade, le piazze, andai ad abbracciare Frank Mannino, nella stazione di rifornimento di benzina. Quando lui mi vide e notò il fazzoletto, gli venne un sussulto di commozione. Ho visto le sue lacrime sgorgare ed ho capito la forza di quella passione politica, autentica, che aveva infiammato quegli animi e che sicuramente non si è assolutamente assopita in quegli uomini forti e valorosi di allora. Frank, alias Cicciu Lampu, in un filo di voce mi disse: “E’ difficili …”. Sì, sarà pure difficile, ma noi Siciliani abbiamo il dovere di crederci ancora, e ci crediamo, compreso Frank, il quale non disse “è impossibile” come qualcuno vuole convincere senza nemmeno prima muovere almeno il sedere dalla sedia. Ho saputo allora che lui era divenuto un fratello evangelico. Questo sta a significare l’autenticità di uomini come nel loro cammino interiore. Uomini che hanno impugnato le armi e le hanno pure usate, ma nello stesso tempo ne hanno sentito la pesantezza.
Quel giorno visitai la “Casa Museo Giuliano” in corso di realizzazione dall’infaticabile Giuseppe, collezionando oggetti, utensili agricoli, perché Giuliano non è divisibile dalla Terra e dai suoi contadini. Mille immagini affioravano nella mente. Vedere la camicetta di Marianna, o il leone disegnato nella cameretta, la bicicletta di Turiddu. Una cosa mi ha colpito in particolare la sua tessera del MIS, la stessa della mia.
Una visita al cimitero di Montelepre era d’obbligo. Così mi accompagnò un incaricato, il quale ad un certo punto, visto la mia riluttanza a fermarmi nella tomba di Gaspare Pisciotta, perché i Siciliani ai traditori li chiamiamo per l’appunto Pisciotta, mi disse: “Falla una visita ad ‘Aspanu, pirchì la storia ‘unn è comu si cunta!”
APPENDICE
Giuliano[7]
Le stagioni sono passate,
ma il tempo è lì rimasto;
tra le piazze e le sue strade
vi è il ricordo del suo gesto.
L’eroe del Popolo Siciliano
dal cuore buono
e dal mitra in mano
è il Colonnello Giuliano.
L’EVIS gridò vittoria,
per la Sicilia fu gloria!
La sua legge l’onore,
per la sua Patria l’amore,
una bandiera nel cuore.
“il giallo osare
Il rosso amare”.
“Risorgi Patria mia
Sarai indipendente”.
Nel cielo di Sicilia
Cantava per la sua gente.
Tra mafie e forze comuniste
calpestarono tutte le verità
a Portella delle Ginestre
negando alla Sicilia Libertà!
Caffè all’Ucciardone
E segreto di stato,
antimafia e commissione
su l’eroe bandito.
Anche se l’odio rancora
Giuliano vive ancora
in ogni Siciliano
che porta nel cuore
la Patria, Dio e l’onore.
Fine
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[1]Il documento – identificato come «Fondo Governo Ordinario», Sezione 9, Busta 1, Serie 36 S dell’archivio storico dell’Arcidiocesi di Monreale. Confermato dalla Curia di Monreale, diretta dal vicario generale don Vincenzo Noto. (Fonte: Giuliano, bandito in paradisodi Francesco La Licata suLa Stampa, 5 aprile 2001)
[2]“Garibaldi sotto un ponte, vendeva pomidori, la bilancia non gli pesava Garibaldi se la menava (si masturbava). Canzoncina popolare con la celeberrima musica FLIK FLOK della fanfara dei Bersaglieri musica di Pietro Luigi Hertel del 1861.
[3]Corpo Forze Repressione Banditismo
[4]Trattasi di Francesco Gaglio detto Riversino, teste principale della strage di Portella delle Ginestre.
[5]Ben descritti da Giuseppe Sciortino Giuliano nelle sue opere, compreso quella citata testé.
[6]http://www.montelepre.info/2009/03/30/fini-le-leggi-vanno-sempre-rispettate-ricordare-e-dovere_588(presa visione il 22 luglio 2010 alle 20,31).
[7]Autore della parte letteraria Alphonse Doria, melodista Alessandro Doria, arrangiamenti Bruno Doria. Canzone incisa nel 1998 in un Compact Disc dal titolo: Studio S.u.D. PRODUTIONS, collezione di artisti vari.
Mi auguro tanto che “chi sa” di queste cose parli, con sincerità, prima di morire. Perchè a questo punto non mi fido più neppure dei documenti che saranno aperti nel 2016.
Il mio nome e Fernando ma tutti mi chiamano Dino.Mio padre con mia madre emigrarono in Inghilterra negli anni cinquanta e ricordo vivamente mio padre che aveva un disco di 33giri con la storia di Salvatore Giuliano che io ascoltavo sempre e questa storia mi è rimasta impressa. Oggi che ho 47 anni ne sento ancora di cotte e di crude sulla storia di Giuliano ma crededemi vorrei credere al signore che dice di essere andato a Toronto e di aver avuto la possibilità di potersi sedere al suo fianco e dividere un emozione che non posso immaginare.Spero vivamente che quel signore al bar era proprio lui Turiddu,anche leggendo questa storia il mio cuore mi conferma quello che io spero.Spero un giorno di poter venire in Sicilia per onorare la vostra terra ed avere il grande onore di conoscere il Signor Giuseppe Sciortino Giuliano grazie.
Satanpio ha calunniato anche Salvatore Giuliano, forgiando la verita’ a suo piacimento, il forgione maledetto e’ sempre “padre Pio”,ma il suo grande inganno e’ quasi giunto a termine.