di Pietro Cavallotti
Siamo negli anni Sessanta, in pieno boom economico. Antonio, dopo 25 anni di lavoro come operaio, decide di mettersi in proprio creando una piccola impresa edile. Del resto l’esperienza ce l’ha, il mercato è pieno di opportunità e le banche non si fanno tanti problemi per un prestito. L’impresa comincia a crescere: si costruisce una piccola casa, poi una villetta, poi un palazzo e così via.
Arrivano gli anni Ottanta. Antonio, dopo anni di gavetta, è diventato un imprenditore affermato. Sono gli anni delle stragi di mafia. Non passa un giorno senza un morto ammazzato. I mafiosi si scannano tra di loro per il controllo del territorio. Antonio, come tutti gli imprenditori a Palermo non può sfuggire al pizzo. Appena piazza un cantiere, viene assalito da 10 cani con richieste di vario genere: soldi, forniture, assunzioni. È il periodo storico in cui, se un imprenditore di Partinico vuole costruire una bettola in Corso Calatafimi, deve prima ottenere il “permesso” della famiglia mafiosa di Corso Calatafimi per il tramite della famiglia mafiosa di Partinico. “Permesso” significa pagare il pizzo alla famiglia mafiosa del posto. In pratica, si viene costretti a pagare per esercitare un proprio diritto. Nella logica di Cosa Nostra, i mafiosi sono i “padroni” del territorio e tutti quelli che vi operano lo possono fare solo con il loro benestare. Si entra in casa di altri solo con il permesso del proprietario.
Antonio prova a dire di no e allora arrivano le prime intimidazioni, i primi avvertimenti, le prime bombe nei cantieri, le prime betoniere incendiate, i primi attentati. Sono gli anni in cui lo Stato non è capace di proteggere neppure i suoi uomini migliori i quali vengono crivellati di colpi o fatti esplodere. Antonio si guarda intorno e vede che pagano tutti: dal grande costruttore del nord fino all’ultimo venditore di panelle. Le forze dell’ordine lo sanno. La politica lo sa. Lo sanno tutti.
Antonio – che ha moglie, bambini e la responsabilità di portare avanti un’impresa con decine di operai e milioni di debiti da onorare -, dopo l’ennesima denuncia di furti, danneggiamenti e attentati subiti, decide di pagare.
Siamo arrivati agli Novanta. Antonio viene arrestato perché, secondo i pubblici ministeri, ha fatto affari con la mafia. Anche tutto il suo patrimonio viene sequestrato.
Quel “permesso”, cioè l’avere pagato il pizzo semplicemente per non essere ammazzato nell’esercizio di una libera attività d’impresa, viene considerato una forma di agevolazione da parte della mafia. Il ragionamento perverso è pressapoco questo: se Antonio non avesse pagato il pizzo, non avrebbe ottenuto il permesso; senza il permesso non avrebbe potuto costruire nè vendere. Quindi, Antonio è stato favorito dalla mafia. Del resto, nessuno obbligava Antonio a non cambiare mestiere oppure a non lasciare Palermo e la Sicilia.
Contro di lui le dichiarazioni di alcuni pentiti che nel frattempo si sono, per l’appunto, pentiti. Raccontano fatti risalenti anche a 15 anni prima.
Comincia il processo. Antonio si difende, porta documenti a sua discolpa e riesce a a smontare, punto per punto, tutte le accuse. 10 anni dopo, siamo nei primi anni Duemila, primo, secondo e terzo grado. Dopo perizie, controperizie, annullamenti, rinvii, rinvii e poi… ancora rinvii, arriva l’assoluzione: il suo patrimonio è frutto del suo lavoro e non dei favori della mafia che anzi lo ha vessato.
Nel frattempo, i figli di Antonio sono cresciuti. Dopo avere studiato, entrano nel mondo del lavoro e avviano autonomamente altre imprese, nella convinzione di essere persone libere e di avere un padre definitivamente riconosciuto innocente dallo Stato italiano.
Passano gli anni, Antonio è un vecchio con tanti nipoti, anch’essi impegnati nelle imprese dei figli. Antonio muore.
4 anni e dieci mesi dopo il decesso, la sezione misure di prevenzione del Tribubale di Palermo sequestra tutto il patrimonio dei figli e dei nipoti perché ritenuto riconducibile al nonno e alle sue “attività illecite”. Non conta la precedente assoluzione e non conta neppure che il capostipite sia passato a miglior vita. Si fa il “processo al morto” per confiscare i beni dei suoi parenti. Non interessano i mafiosi. Interessano i beni.
I figli e i nipoti devono ora dimostrare come il nonno sessant’anni prima ha fondato la sua prima azienda. Viene chiesto loro di produrre documentazione risalente a mezzo secolo prima (documentazione non più esistente). Chiedono alle banche gli estratti conti del 1970 ma non li ottengono. Cercano le fatture del 1963 ma non le trovano.
Devono spiegare quali erano i consumi familiari del nonno, cosa mangiava a cena, che vestiti indossava, dove e se andava in vacanza, quanto spendeva. Ma non lo possono sapere perché Antonio e sua moglie sono morti.
Gli viene chiesto di smentire il racconto di persone (di cui non hanno mai sentito neanche il nome) le quali riferiscono di essersi incontrate, non si sa bene quando e perché, con il nonno negli anni Ottanta. Cioè quando i nipoti non erano nati, quando i figli erano appena adolescenti.
Il processo si conclude con la confisca di tutto il patrimonio. Non c’è la prova che i beni sono il frutto di un qualche reato (del resto Antonio era stato assolto). Tutto si basa su una presunzione: siccome gli eredi non sono riusciti a ricostruire l’evoluzione del patrimonio, questo patrimonio è del nonno “mafioso” (anche se non è mai stato condannato).
Forse Antonio aveva fatto un poco di evasione fiscale, quella tipica a cui i costruttori in quegli anni erano costretti a ricorrere non tanto per eludere il fisco ma per avere denaro contante da versare a titolo di estorsione alla mafia. Nulla comunque a che vedere con riciclaggio, reinvestimento di capitali illeciti o altri reati. Ma tutto questo non conta.
La domanda molto semplice è: secondo voi, questa è lotta alla mafia? Quante storie come questa ci sono?