Ognuno può avere la sua giornata, anche quando la sua vita, la sua carriera sono e pare debbano passare alla storia (se la storia non avesse proprio altro di cui occuparsi), per la sua compattezza del suo grigiore.
E “la giornata” di ognuno tale può essere considerata a seconda del soggetto e della “qualità” di essere, quando lo è, ma anche quando non lo è, “qualcuno”.
Antonio Tajani è, per otto Italiani su dieci, uno sconosciuto. Eppure ricopre in Europa una altissima, anche se un po’ vuota, carica. E’ poi Vicepresidente di Forza Italia, carica ignorata e trascurabile dai più, non meno della persona che la ricopre.
Come ha rotto il grigiore che lo caratterizza Antonio Tajani? Nel modo che meglio si confà ad una persona con le sue caratteristiche. L’ha rotta con una gaffe. Guai a commettere una gaffe per chi ha passato una vita a non farsi notare, a presentarsi come l’uomo dalle convinzioni, dalla vita, dalle reazioni più ovvie.
C’è rischio che la gaffe sia davvero tale da travolgere l’attenta e faticosa costruzione fatta di vacuità.
Antonio Tajani, preso da un pur lieve ed inconsueto impeto polemico, è incorso in quello che, in altri tempi, si diceva “l’aver detto male di Garibaldi”.
Ha “detto bene” di Mussolini. Questa l’accusa.
Di questo le sue scuse.
In realtà la frase “incriminata” (si fa per dire) più che rivelatrice di una incontenibile propensione per il fascismo ed il suo Duce, è rivelatrice di una banale ignoranza della storia ed anche dei luoghi comuni che passano come storia e pesano sulle convinzioni degli Italiani.
Ha impasticciato parole oggi correnti (“le infrastrutture”) con le “opere del regime” che erano nelle pagine dei libri di scuola anche delle elementari, e che anziché “infrastrutture” (lo erano solo due dei “fiori all’occhiello”: la Direttissima Roma-Napoli ed il grande Traforo dell’Appennino) erano, oltreché orpelli del Regime, mezzi con i quali si era fatto fronte (meglio di altri Paesi) alla terribile crisi del ’29.
Singolare il pasticcio: del linguaggio oggi di moda (“infrastrutture”) con l’assassinio di Matteotti, considerato come una sorta di “pausa”, una parentesi del gran “ben operare” del “Duce”. E, poi la “modifica integrale” il cui risultato fu più propagandistico che economico-sociale.
Una espressione di postuma e raffazzonata simpatia per il fascismo l’ha espressa sicuramente. Ma, soprattutto ha sfoderato la prova di una ignoranza, di un pressapochismo e di una piattezza non certo degni, non solo e non tanto perché “filofascisti”, ma perché banalmente ignoranti, di un alto personaggio delle Istituzioni Europee.
Di “fascismo” gli sono però venute le accuse.
Ma, oramai, nessuno perde il posto fosse anche di usciere del Ministero o di un’alta carica per aver ripetuto certe cavolate. Però la gaffe è servita a far uscire il Nostro dal suo grigiore ed a dargli un giorno persino sulle prime pagine dei giornali.
“Il Dubbio” di Sansonetti gli ha dedicato una particolare attenzione ed ha fornito notizie ampie e non prive di interesse sulla sua vita: dai tempi del liceo, alle sue simpatie monarchiche.
E, poi l’informazione: che il giovane ed obbediente giornalista berlusconiano era il rampollo di una famiglia di militari.
Già. Una famiglia. Di cui però Sansonetti, forse perché le informazioni le aveva chieste proprio a lui, a Tajani, non ci ha voluto ancora una volta offrire il meglio. Quelle, cioè, circa l’Avo Diego Tajani, avvocato con Pasquale Stanislao Mancini di Garibaldi nella causa del matrimonio rato ma non consumato, Procuratore Generale a Palermo, Deputato al Parlamento che per primo, in un famoso discorso, mise sul tappeto il fenomeno della mafia.
Come ho scritto nel mio libro “C’era una volta Montecitorio” (1) Antonio Tajani da me interpellato, mi confessò di sapere assai poco di quel certo avo di cui, sì, aveva però inteso parlare.
Tajani è stato ed è un personaggio di Montecitorio. Lo conobbi giovane giornalista parlamentare. Era tale, non so se con incarichi di portavoce o di “portasilenzi” di qualcuno, quando ero Deputato.
Anche allora, a dire il vero, un giorno ebbe modo di uscire dall’assoluto grigiore (in verità non solo suo).
In pieno Transatlantico incontrò Pazzaglia, Capogruppo del M.S.I.
Vi fu un brevissimo scambio di parole, neanche con tono agitato. Poi Pazzaglia gli menò un gran ceffone. Se ne andarono ognuno per la sua strada. In altre parole, Tajani, come si dice a Roma, “se lo prese su e lo portò a casa”.
Il caso, deplorevole per la plateale violenza. non passò certo inosservato, dato il luogo in cui avvenne. Ma la notizia non uscì di lì. Nessuno, che io sappia seppe dire la ragione di un gesto così grave ed odioso. Né mi consta che qualcuno ne sapesse qualcosa.
Di quel ceffone, come dell’Avo giurista e garibaldino, non ne ha parlato nessuno. Anche Sansonetti (informatissimo per il resto) non vi ha fatto alcun riferimento.
Eppure quella subìta violenza da parte di uno dei leader (che, per quel che ne so, violento non mi sembrava) di un partito dichiaratamente fascista, avrebbe potuto essergli utile per ribaltare l’effetto della gaffe su Mussolini, le “infrastrutture” e l’assassinio Matteotti.
O, meglio. per quello che quella gaffe può essere apparsa. Ché, in realtà le gaffe che mettono in luce solo la mancanza di qualità, o qualcosa di simile, di chi vi incappa hanno poca possibilità di essere ribaltate.
Rovesciate un più o meno ignorante e sempre un ignorante, vi troverete di fronte.
Mauro Mellini
18.03.2019
(1)
N.B.
Vedi quanto scritto su A. Tajani nel libro di Mauro Mellini “C’era una volta Montecitorio”, Cap. 4° “Caballeros, peones, scaldabanchi” pgg. 44, 45 e Cap. 18° “Referendum tradito” pag. 159.
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