Parole d’oro, quelle che Nino Di Matteo, icona dell’Antimafia, taumaturgo della “bilocazione”, cittadino di cento città, ha fatto tuonare l’altro giorno nell’aula bunker della Corte d’Assise di Palermo.
Parole d’oro con riferimento non al valore, all’eleganza, alla sapienza ed alla saggezza che le hanno ispirate, ma al costo, in euro, in denaro sonante o meglio in bigliettoni fruscianti. Benché la sua requisitoria non sia stata davvero succinta ma si sia protratta più del sopportabile, ogni parola di essa è costata un patrimonio. Non a lui, all’oratore, ma allo Stato, a tutti noi Cittadini. Per meglio intenderci a Pantalone. Quello che paga le cavolate degli altri.
Credo che lo ricordiate tutti: “Bisogna promuoverlo. Roma, la madre del diritto, la Procura Nazionale Antimafia di Via Giulia (ex museo criminale e di strumenti di tortura, di forche e mannaie) lo aspettano”.
Sì, perché è stato “condannato a morte” da Totò Riina.
Ma state tranquilli! Non lascerà Palermo, non diserterà il suo gran processo, quello della “Trattativa Stato-Mafia”. E polemiche, rimbrotti, tira e molla.
Bocciato, poi vincitore del concorso. A Roma ma anche a Palermo. L’ubiquità funzionale, la spola in aereo con la scorta, anzi la superscorta. Un aereo speciale. E un’auto blindata specialissima con un marchingegno antibomba che paralizza gli impulsi elettrici che dovrebbero provocare eventuali esplosioni. Quando passa accanto ad un Ospedale si bloccano tutti gli apparecchi. Qualcuno ha rischiato di rimetterci la pelle. E l’indennità di trasferta per continuare a risiedere, “distaccata” a casa sua. Nessun magistrato è costato e costa tanto allo Stato né in Italia né all’estero.
Tutto ciò si è svolto col pretesto di quel “va a morì ammazzato” in dialetto Corleonese elevato a “condanna a morte”, come quella di Luigi XVI, di Oberdan, dei Fratelli Bandiera e tantissimi altri della storia e delle leggende. Ed in funzione di quel superprocesso di cui il “Cittadino di Cento Città” era stato definito il simbolo, in cui Lui, l’Uomo simbolo, doveva parlare, scagliare i fulmini dell’accusa.
Costo di un magistrato-simbolo, di un processo che sta battendo primati di durata e spese favolose. Processo costoso, magistrato costosissimo. E, naturalmente, anche se il conto è assai difficile, le parole della requisitoria di quel magistrato, il prodotto di quel gran casino, di quell’affaccendarsi di ministri, giornalisti, maghi, tifoserie organizzate, leccapiedi disorganizzati per consentire, promettere che quella requisitoria, quelle parole fossero pronunziate potrebbe, dovrebbe definirsi il più grandioso, come dire, concorso esterno “in requisitoria” mai registrato dalla storia. Ed il più costoso. Parole costose. Costosissime.
Ed oggi che sappiamo come parlò l’Uomo simbolo di quel processo, e dovremmo cercare di ricavarne finalmente quel che quel esso sia, dobbiamo proprio dire “con rispetto parlando” come si dice a Roma, che è stata ed è solo una cavolata incredibilmente costosa.
Chiarito e dimostrato in che senso le parole di Di Matteo debbono definirsi “d’oro”, non trovo termine adeguato per definirne il valore, la saggezza, il contenuto razionale e scientifico.
La requisitoria è solitamente pronunziata contro gli imputati, anzi “contro” quegli imputati di cui il P.M. sostiene la colpevolezza chiedendone la condanna. Di Matteo ha parlato contro tutti, specie contro chi rappresentava e serviva lo Stato o ne aveva approvato o non abbastanza duramente stigmatizzato il comportamento e la politica. Comportamenti ed opinioni che non fossero quelli di una “linea dura” o ritenuta tale.
Chiuso il dibattimento ed avute le prime parole dei P.M. che si alternano a rappresentare l’accusa (come si dice impropriamente, ma, in questo caso non abbastanza impropriamente, ché occorrerebbe dire l’accusa universale) era sembrato che essi facessero un certo sforzo per allontanare dal processo il marchio di balordaggine rappresentato dal suo “nome d’arte”: “per la Trattativa Stato-Mafia”.
Era venuta fuori la tesi della “mediazione necessaria” o non ricordo più nemmeno quale altro non meno inconcludente aggettivo della mediazione. Insomma tutti quei personaggi non avrebbero “trattato” perché ciò avrebbe comportato che avrebbero rappresentato lo Stato e lo Stato non può essere imputato perché è la fonte del diritto e della legalità. Invece che come rappresentanti dello Stato (quali erano: ministri etc.) si sarebbero posti come mediatori tra la mafia e lo Stato ancorché da loro stessi rappresentato. E sarebbero stati mediatori non imparziali, utili solo alla mafia. Una tesi più che contorta, attorcigliata, ridicola già nella sua complicazione.
Era comunque, o sembrava essere, un tentativo di tirarsi un po’ indietro nella pretesa smaccatamente komeinista di giudicare lo Stato.
Ma Di Matteo è tornato alla “linea dura” della pretesa di giudicare e demonizzare una pretesa “linea molle” dello Stato, del Governo e, magari del Parlamento. O, forse, un tentativo di adozione di una politica “molle” o non abbastanza dura.
Ed ha inveito. Più che una requisitoria è stata una interminabile invettiva. Contro un po’ tutti. Contro Berlusconi, il che è “naturale”, ma anche contro Scalfaro, contro Conso, contro Martelli, contro Violante, contro morti e contro vivi, politici e funzionari molli e poco duri. Colpevoli di azioni ed omissioni e, soprattutto di cattivi pensieri.
Ha, invece, “detto bene” di Massimo Ciancimino, che, poi, sarebbe, un imputato oltre che un mafioso pentito, il pilastro dell’accusa. E, paradossalmente (ma prevedibilmente) ha detto di Totò Riina che aveva detto la verità quando ha farfugliato le frasi intercettate contro altri mafiosi che avrebbero “trattato”.
Difendendo l’indifendibile fantasioso Ciancimino ha difeso l’”autenticità” del famosissimo “papello”, negando che fosse stato contraffatto, che recasse tracce di alterazione e di falsificazione.
Come se fosse possibile “falsificare” un documento che non è un documento, ma un pezzo di carta con uno scritto (le supposte “condizioni” della mafia) non firmato e non attribuito a nessuno. Di ignota provenienza.
Parole tante e tuttavia, lo ripeto, con un costo unitario incredibilmente alto. Non credo che qualcuno proverà mai a calcolare quanto ci costa ognuna di quelle memorabili parole.
Ma il costo complessivo della cavolata del secolo si potrebbe tentare di calcolarlo. Ma nessun vorrà gettare il sale del buon senso e della puntualità sulla antica piaga di Pantalone.
Mauro Mellini