Ho tra le mani il libro di Bruno Contrada “La mia prigione” che ho letto con deplorevole ritardo quando l’Autore me ne ha fatto dono con una prefazione che me ne ha fatto gradire ancora di più la cortese attenzione.
Conoscevo del “caso Contrada” quel tanto (o quel poco) che mi consentiva di esser certo che nei suoi confronti si era scatenata una persecuzione resa possibile da un sistema giudiziario e da un atteggiamento di magistrati, giornalisti, uomini di governo che concretano la soppressione, in certi casi, di ogni parvenza di giustizia.
La lettura del libro mi conferma tutto ciò e ne rende palpabile, terribilmente evidente la realtà. Basti dire che tutto l’impianto accusatorio nei confronti di uno dei più noti, esperti e sagaci funzionari del nostro apparato di sicurezza (?!?) si fonda sulla parola dei pentiti, cioè dei delinquenti che per anni egli aveva perseguiti ed inseguiti. Ma non basta: la gran parte di questi gentiluomini che lo hanno accusato ha deposto il “sentito dire”.
Una norma specifica del nostro codice di procedura penale (una specie di libro di favole) stabilisce il divieto di deposizione di “voci correnti tra il pubblico”.
Ma l’ineffabile saggezza della nostra magistratura ha stabilito che questa norma “troppo normale” si applica solo alle persone per bene. Non ai delinquenti “collaboratori di giustizia”, i quali possono riferire delle voci correnti nel loro ambiente criminale, appunto perché criminale, quindi un “pubblico specifico”, molti gradini “più su” di quelli pettegoli ed inaffidabili di semplici persone per bene.
Né i “pentiti” delinquenti né le persone cosiddette per bene che ne hanno recepito le “rivelazioni”, né quelle altrettanto per bene che hanno giudicato questo Servitore dello Stato che doveva, ovviamente, aver suscitato un odio sordo e inestinguibile nell’ambiente criminale di cui per decenni aveva colpito persone, organizzazioni ed affari, ha fornito spiegazioni che abbiano resistito al più benevolo dei controlli circa le ragioni per le quali quest’uomo, funzionario dalla carriera brillante e ricca di successo, sarebbe, ad un certo punto, divenuto un miserabile manutengolo della mafia. Che non si è arricchito e non ha tratto vantaggi di sorta se non dal suo lavoro.
E qui incomincia la valutazione dei giudici e dei giudizi. Che ci porta lontani nel tempo. E’ lo spirito della Santa Inquisizione, quella più dura e feroce, l’Inquisizione di Spagna, che imperversò a Palermo, di cui scrissero Pitré e Sciascia. E’ la concezione del male, del Maligno sempre incombente e tentatore, del quale non c’è bisogno di dare prove e spiegazioni, perché è il peccato originale degli uomini, verità di fede. Cosa che importa la possibilità, anzi il dovere di dubitare di tutti e di tutto.
L’interrogativo, al quale nessun giudice di quelli che hanno condannato Contrada risponde è il “perché” del suo delitto.
Ma ad esso si aggiunge, e la lettura lo rende più evidente proprio perché Contrada, come ha scritto in una citazione sotto il titolo, non parla “per odio d’altrui né per dispetto” e quindi non ne fa cenno, l’interrogativo nostro e, il nostro “perché”? Il perché della persecuzione.
Contrada non accenna a pregressi contrasti, all’odio che talvolta si sviluppa tra persone che sono dalla stessa parte e lavorano e combattono per le stesse battaglie. Ma parla abbastanza di veri e incomprensibili tradimenti ad un certo punto consumati in suo danno. Mai, però dei “mandanti” di tale mostruosa persecuzione.
Le ragioni, purtroppo, possono essere state molte, le più diverse e difficilmente percepibili “ad occhio nudo”. Ma alcune sono, a mio avviso, d’ordine generale.
C’è tra i magistrati un atteggiamento mentale che, si direbbe, sono proprio i “pentiti” a conoscere e rilevare meglio di tanti psicologhi e mafiologhi per valersene e servirsene. E’ il complesso della diffidenza, la sensazione di essere traditi da tutti, ostacolati specie dai loro collaboratori, dal Governo, dallo Stato (che, infatti, magari vogliono processare).
Isolati per ovvii e fondati motivi di sicurezza, finiscono con avere una visione pessimistica, diffidente del “mondo esterno”. Il protrarsi per anni di questa vita di frustrazione per la perennità di una “lotta” che, come tale, sempre meno ha a che fare con la giustizia, li porta a riversare la causa di questa vera o presunta inconcludenza delle loro battaglie sulle inefficienze o sui tradimenti degli “altri”.
E’ un fenomeno psicologico che si manifesta e che la storia attesta essersi sempre manifestato in altre categorie di personaggi, specie dei tiranni.
Luigi Cadorna, comandante in capo dell’Esercito nella prima guerra mondiale dal ’15 al ’17, sprezzava, diffidava e, all’occasione colpiva con una sorta di sadismo i suoi generali che “silurava” e dichiarava responsabili di non aver saputo portare fino in fondo le inutile carneficine dei suoi “attacchi frontali”. E odiava i soldati e li disprezzava, accusandoli di codardia (il famoso bollettino “censurato” di Caporetto). Giunse al punto di dichiarare di avere una gran voglia di scrivere al suo omologo austriaco, Boroevich, pregandolo di far frustare i Soldati italiani fatti prigionieri.
E sprezzava, naturalmente, il governo, sostenitore anche lui della necessità dell’”unità di comando politico miliare della Nazione” in guerra.
I magistrati che, magari da troppo tempo, sono in posti che li fanno sentire “in guerra”, non nutrono in troppi casi, sentimenti dissimili.
Se il caso Contrada impone l’esigenza che, alla fine, per via di revisione, giustizia sia fatta, esso più di altri consente, anzi, impone, pure analisi e rilievi che però sembra nessuno voglia fare.
Leggere questo libro è un mezzo per superare la miopia delle false “motivazioni” fondate su giravolte sciocche di una logica strumentale e fasulla ed affacciarsi, invece, alla storia.
Bruno Contrada con Letizia Leviti “La mia prigione – Storia di un Poliziotto a Palermo” – Marsilio 2012
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info