Pare che Rosario Crocetta si sia definitamente convinto di non aver ascoltato al telefono Tutino parlargli dell’opportunità di accoppare Lucia Borsellino che stava “rompendo le scatole” della loro bella compagnia e, abbia messe da parte definitamente idee di suicidio e di dimissioni (“tanto quelli mica sono fessi da sfiduciarmi per andarsene a casa loro…”). A convincerlo che quella telefonata così devastante non è mai esistita è stato il Procuratore Lo Voi, cui Crocetta esprime gratitudine per avergli salvato la vita.
A Lo Voi ed alle sue “graduali” dichiarazioni, si sono uniti poi proprio di due procuratori di Messina e Caltanissetta che contendono avanti al T.A.R. a Lo Voi il posto di procuratore di Palermo: Lo Forte e Lai.
Questo aspetto che non manca davvero di qualche spunto umoristico della questione dello sfascio politico e non solo politico della Sicilia, merita qualche considerazione e non soltanto le risatine, più o meno manifeste, con le quali per lo più la gente, rassegnata a tutto, ha accolto gli ultimi sviluppi della tragicommedia.
Crocetta non è un pusillanime. Non ha proprio i tratti e la storia dell’omosessuale pavido e effeminato corrente nell’immaginario collettivo.
Deponendo quale parte lesa avanti ad un P.M. che indagava sul tentativo di ricatto di un ex sostenitore che lo minacciava di “sputtanarlo” con un manifesto se non lo avesse “messo in lista” per le elezioni, dichiarò che lui delle minacce di ricatto anche ben più gravi se ne ride, impegnato e temprato come è nella lotta con la mafia. E fu tanto convincente, che quel P.M. ne trasse, sfidando in verità nozioni basilari del diritto penale, argomento per chiedere (ed ottenere) l’archiviazione del caso per “mancanza di intimazione del soggetto passivo”.
Ma di fronte alla notizia dell’accusa di “ascoltata bestemmia” di stampo mafioso, fondata su una intercettazione telefonica, cioè su uno strumento tipico della “giustizia sputtanatoria” dell’Antimafia, così come i verbali delle dichiarazioni dei pentiti, quel “duro” della politica Siciliana, non ha pensato neppure per un attimo a ridersela come in quell’altro caso (in cui, in verità, l’autore della minaccia era un personaggio da ridere, benché, per anni, tenuto in grande considerazione dai magistrati di Agrigento e dintorni) o a gridare al falso, all’attentato. Ha detto che, forse la frase di Tutino non l’aveva sentita perché quel benedetto telefono avrà avuto un difetto momentaneo di funzionamento. E poi tra pianto a dirotto, si è autosospeso dalla presidenza ed ha pensato al suicidio, cercando un modo pratico e sicuro per farlo, preso dalla vergogna che gli impediva di mostrarsi alla gente che, pensava, lo avrebbe coperto di insulti (cosa che la gente non fa, neanche per ben altri motivi che per l’”ascoltata bestemmia).
E già: Crocetta è un antimafia che più antimafia non si può. Come tale deve avere una venerazione oltre che per l’Antimafia come oggetto, appunto di devozione e di culto, come dice Vitiello, anche per i suoi peculiari, e come tali, “santi” strumenti.
Dubitare di una intercettazione è come dubitare di una dichiarazione di un pentito. Certe cose le fanno i “garantisti fottuti”, mai un Antimafioso D.O.C. A costo di sacrificarsi, come Crocetta è stato sul punto di fare.
Ricordo che con Enzo Tortora combinammo uno scambio di lettere, in chiave grottesca ed assurda, pubblicate su “Epoca”, sul dovere dell’antimafioso ed anticamorrista di dichiararsi colpevole per non mettere in discussione quell’”efficacissimo” strumento di “lotta” alla Camorra che erano i pentiti che lo accusavano. La lettera di Tortora concludeva che a tale “dovere civico di autoaccusarsi non poteva proprio adempiere perché non aveva la fantasia necessaria ad inventarsi una ipotetica colpevolezza”.
Che un adoratore dell’Antimafia, accusato con gli strumenti tipici di essa (e come tali di dovuta “devozione”) debba sacrificarsi “per la causa” è cosa che può far ridere. Ma, in fondo è quanto avveniva, distrutta la Repubblica ed i suoi processi avanti al Popolo garantiti dalle antiche leggi, sotto gli imperatori romani, che mandavano ordini a quanti sospettassero di tradimento, di suicidarsi. Ed erano, come insegna il caso di Seneca con Nerone, puntualmente e prontamente obbediti.
Come Seneca, dunque, Crocetta stava per suicidarsi per dovere di ossequio e di fedeltà a “Santa Intercettazione” del culto Antimafia, che mai avrebbe definito una “bufala”, se da una “fonte superiore di devozione”, un magistrato (benché non troppo in odore di santità oltranzista antimafiosa) gli è venuta l’informazione di essere innocente di quel reato di “ascoltata bestemmia” e, quindi, l’autorizzazione a dichiararsi tale, a dismettere ogni idea di suicidio e di dimissioni, a sospendere l’autosospensione ed a sfoderare di nuovo la grinta, forte della verità jussu judicis ed a sfidare tutti: provate a sfiduciarmi così dovrete andare a casa pure voi e sarete rei di “lesa maestà antimafiosa” provocando la caduta “dell’unico governo antimafioso che abbia avuto la Sicilia”.
C’è poco da ridere. Nel comportamento di Crocetta c’è una concezione della verità, del bene e del male, che ha radici antiche. La tradizione cattolica voleva che il pentimento del condannato a morte fosse coronato dall’accettazione della condanna come “giusta” e ciò per doveroso ossequio alla giustizia, che promana da Dio ed a chi la esercitava, specie, dunque, per i delitti di eresia giudicati dai Tribunale della Santa Inquisizione. Fanno fede di ciò i “manuali” e le “istruzìoni” ai confessori, confortatori, frati e preti che costituivano il corteggio de boia. Che il condannato si dichiarasse innocente doveva essere impedito in tutti i modi, con la minaccia di negare l’assoluzione “in extremis” con il conseguente invio all’Inferno, e, magari, mettendogli la “mordecchia”, mentre ringraziare i giudici che, sia pure estorcendogli la confessione con la tortura, lo avevano condannato, era considerato altamente edificante completamento dello spettacolo dell’ammazzamento offerto alla folla.
(Leggete, ove ciò non dovesse convincervi, il libro di Adriano Prosperi “Delitto e perdono”).
Certo Crocetta e l’Antimafia e le moderne versioni della Santa Inquisizione vanno più in là. Al brocardo “res judicata pro veritate habetur” se ne sostituisce un altro, più rigoroso “res in judice sputtanata pro veritate habetur”. Ma al potere della Chiesa di giudicare le eresie e di assolvere (raramente), gli accusati, se ne sostituisce quello dei P.M. degli accusatori, che è necessario non contraddire per salvare almeno l’anima e quelle dei “pentiti”, che è peccato mortale contraddire, come le “risultanze” delle intercettazioni telefoniche.
Ma i sacerdoti, specie quelli sommi, della Giustizia dell’Antimafia possono assolvere, mondare dal peccato e negare che questo sia stato commesso. L’ossequio alle loro decisioni è esso stesso prova di fede monda da macchie.
Crocetta, dunque, fedele dell’Antimafia di cui non discute la sacralità degli strumenti (come le intercettazioni e la loro propalazione ad edificazione del popolo cristiano-antimafioso) sente il dovere di suicidarsi per quello sputtanamento che “pro veritate habetur”, finché la verità non gli è stata rivelata dalla Santa Chiesa dei sacerdoti in toga che, fortunatamente, hanno fatto in tempo a salvarlo dall’estremo gesto di fedeltà al magistero dei depositari della verità.
E’ davvero una storia edificante.
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info