di Ettore Zanca
Esce il nuovo libro di Alessia Bottone, dal titolo provocatorio e ironico, “Papà, mi presti i soldi che devo lavorare?”, una raccolta semiseria, ai limiti della farsa, sulla ricerca di lavoro in Italia della protagonista. Selezioni ai limiti del grottesco, colloqui in cui tutto veniva chiesto, tranne le competenze, episodi di sfruttamento ai limiti dello schiavismo. Il tutto, se possibile, con una leggerezza che si conquista a fatica, ma va mantenuta per non impazzire, questo è quello che ci ha detto, sul suo libro e su quello che vuole trasmettere. Alessia parla da “addetta ai lavori”, visto che tutte le disavventure, la vedono protagonista, come una novella Wile Coyote del mondo del precariato, ma con una tenacia degna del suo soprannome, Black & Decker.
Questo è il tuo secondo libro nel mondo del precariato, affronti l’argomento in maniera ironica ma non volgare, emerge uno spaccato di una persona che non si arrende anzi torna in Italia per trovare lavoro qui dopo aver girato. C’è un dialogo su Youtube di Ficarra e Picone, in cui uno dice all’altro che non vuole andarsene dalla sua città perchè andandosene verrebbe a dire una sconfitta. La stessa ragione ha portato te a tornare? andarsene significa una sconfitta?
Sono tornata perchè avevo solo 14 euro sulla postepay, dopo l’ennesimo stage gratuito sostenuto, se non fossi stata in difficoltà non sarei mai tornata, è vero, andarsene dall’italia è una sconfitta, ma non ne siamo assolutamente responsabili noi.
Alessia ti rendi conto di essere in controtendenza? Tu torni mentre gran parte delle persone vanno via, sei un simbolo di resistenza.
Io consiglio spesso di andarsene, nonostante ci siano molte speranze spesso vanificate di restare, partire può, sottolineo può, essere la soluzione, si decide di andar via perchè ci si salva.
Il libro non è solo una presa in giro dei modi più indecenti di sfruttare un lavoratore precario, è anche una piccola guida su come non disperdere i propri sogni. Sembra che tu voglia far passare il messaggio che il sorriso a volte è l’ultimo rimedio per tenersi incollati a quello che speriamo.
Mi scrivono genitori i cui figli hanno una perenne attesa e colloqui sostenuti e non andati a buon fine, strappare un sorriso è la minima consolazione per chi non riesce ad entrare nel mondo del lavoro, ma anche uscirci ed essere fuori mercato.
Tu che hai girato e sei stata anche ai limiti psicofisici della sopravvivenza, hai però guardato l’Italia anche da un punto di vista periferico. tempo fa parlavo con Lello Analfino, autore della canzone del film andiamo a quel paese, e di un’altra canzone che sembra la soundtrack del tuo libro, che si intitola precario. Lui diceva che vede l’Italia come un immenso contenitore di merda, ma chi ci sta dentro non sente la puzza. Da fuori si capisce davvero cosa non va: ecco Alessia, cosa non va per te?
Prendiamoci un milione di righe, per questo, da signora forse direi la stessa cosa di Lello, con termini più raffinati, ma il concetto è quello! Scherzi a parte, sono d’accordo con lui, l’Italia è un contenitore di risorse non sfruttate, anzi peggio, di risorse sfruttate e senza capire il valore. Io non sono d’accordo sulle ingiustizie retributive e sul salario esiguo. Noi stiamo eccettando una politica salariale che ci sta annullando.
Alessia, considerato che fai parte di quelli che difendono e resistono sul fronte dei propri sogni e progetti, cosa ti aspetti, che cosa prevedi per te?
Spero di restare, spero di poter vivere qui, con serenità, come lo spero di tutti quelli che cercano lavoro e vorrebbero non andarsene, spero di non dover partire, ma temo che non sarà così. E vorrei indipendenza e autonomia, che purtroppo sembrano miraggi oggigiorno.