Diciamoci la verità, sul piano mediatico il video del giornalista britannico John Cantlie trasmesso ieri sera rappresenta una delle peggiori sconfitte che gli Stati Uniti abbiano subito nel corso della guerra contro lo Stato Islamico. Fin dall’inizio di questa guerra ci si è sottratti all’invio di truppe su terreno, il vero incubo dei governanti occidentali che avrebbero dovuto giustificare all’opinione pubblica i tanti morti che avrebbe provocato uno scontro di terra con i terroristi islamici.
L’opinione pubblica, uno dei tanti aspetti di questa guerra. Un aspetto che lo Stato Islamico cura con particolare attenzione. Prova ne siano i messaggi sui social network, la quantità di riviste jihadiste messe in rete in pochi mesi, la creazione di un ufficio stampa dell’IS e persino una radio e una tv che diffondono messaggi, proclami e vittorie più o meno presunte delle milizie nere.
La nostra stampa, più o meno distratta, più o meno dipendente dalle veline istituzionali provenienti dagli Stati Uniti, ha sottovalutato il problema. Su Cantlie non ci eravamo sbagliati quando scrivevamo che i video-appelli erano stati tutti registrati nel corso della stessa giornata. Prova ne sia che sei video mostravano un uomo con capelli e barba della stessa lunghezza e persino sempre con la stessa pettinatura.
A distanza di qualche giorno abbiamo visto un uomo diverso, con barba e capelli lunghi come se si fosse convertito all’Islam. Eppure, anche noi, un errore lo avevamo commesso quando per spiegarci la necessità dei terroristi di registrare più video nello stesso giorno, avevamo temuto per la vita di Cantlie. Purtroppo, ci eravamo sbagliati. Non si tratta di esser cinici, qual “purtroppo” ha una spiegazione e forse anche una ragione umanitaria.
Di Cantlie sappiamo che fu torturato. Vederlo ieri nella qualità di “inviato dello Stato Islamico” a Kobane non può non lasciarci presumere che il giornalista inglese, pur di evitare altre sofferenze, si sia prestato a questa farsa. Viceversa, se di farsa non si trattasse, il “purtroppo” avrebbe solo una diversa ragione di esistere. Nell’uno o nell’altro caso, il padre del giornalista morto da pochi giorni, si è risparmiato la sofferenza di vedere il proprio figlio indossare i panni del giornalista del Jihad.
Kobane è qualcosa in più della piccola cittadina curda ai confini della Turchia da dove è possibile controllare 180 chilometri di frontiera. La popolazione curda di Kobane ha contrastato allo fino stremo l’assalto jihadista impegnando i terroristi nei combattimenti in strada, casa per casa perchè Kobane rappresenta un luogo simbolo della coscienza nazionale curda nel contesto del perseguimento del consenso curdo su un supporto unificato per affrontare le tribù arabe agli inizi del secolo scorso.
In quest’angolo sperduto di mondo, si è giocata e si continua a giocare una partita importante per l’impatto psicologico che la presa della città avrebbe su tanti estremisti islamici; sull’impatto psicologico negativo che avrebbe su chi combatte lo Stato Islamico; sulla credibilità di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, sulla quale i primi che forse non scommetterebbero mai sono proprio gli alleati degli USA.
Gli USA hanno sottovalutato la capacità dell’ISIS di utilizzare a proprio vantaggio l’informazione, così come hanno sottovalutato l’effetto che avrebbe avuto la caduta della città di Kobane. Oggi i jihadisti esultano. Cantlie ieri si è trasformato nella loro arma vincente. Più di ogni colpo di cannone, di ogni autobomba, di ogni eccidio commesso in questi terribili giorni di guerra.
Gli americani, tardivamente, hanno capito l’errore e si apprestano a combattere anche mediaticamente una guerra che si presenta più dura e pericolosa di quanto non avessero inizialmente previsto.
Un errore, anche questo, imperdonabile visto che lo Stato Islamico già da tempo aveva iniziato a perseguire i giornalisti che non si prestavano a far da megafono alle loro imprese, accusandoli di essere spie dell’Occidente.
Questo avrebbe dovuto far comprendere alla coalizione l’enorme importanza che gli estremisti islamici danno agli effetti che ha l’informazione sui loro stessi supporter. Un’importanza tale da spingere i terroristi ad emettere una fatwa contro i giornalisti della rete d’informazione Alarabiya: “E’ permesso uccidere chi lavora per Alarabiya ed il loro sangue è halal…”. Halal, ossia è lecito ucciderli. Il messaggio, in più lingue, era stato dato tramite i soliti canali jihadisti con un video messo in rete e diffuso tra i militanti dello Stato Islamico.
Anche tre giornaliste appartenenti ad altre testate sono state individuate dagli estremisti islamici che attraverso il web hanno emesso un mandato di cattura “vive o morte”.
Come nel caso di Miho Matsumoto Almansouri, pilota di uno degli aerei che ha partecipato alle incursioni contro l’IS, ancora una volta il nemico principale dei terroristi è una donna.
Jenan Moussa, questo il nome della giovane giornalista, reporter di guerra con sede a Dubai, Emirati Arabi Uniti, che a soli 29 anni aveva già calcato i terreni più duri e pericolosi del mondo (Siria, Mali, ecc.). In Siria per un reportage di guerra realizzato per Al Aan TV, una televisione con sede a Dubai, Jenan Moussa, nel corso di un’intervista pubblicata dal sito “Integrales Productions”, aveva narrato delle sue esperienze in un paese sconvolto dagli eventi bellici. Dall’inferno vissuto sotto i pesanti bombardamenti dell’artiglieria dell’esercito del regime, delle centinaia di persone in coda dinanzi le panetterie di Aleppo, dei detriti lungo le strade, di una brigata femminile impegnata nella lotta armata.
“Fare la giornalista in Siria è ovviamente un rischio in sé – afferma Jenan Moussa nella sua intervista – La Siria resta uno dei posti più pericolosi al mondo per lavorare. Molti colleghi sono stati rapiti, alcuni hanno perso la vita. E quando si arriva all’interno del paese che vi sentiti soli e siete consapevoli di giocare con il vostro destino. Un 50% di possibilità di tornare indietro e un 50% di restare lì per sempre… Il rischio è enorme. Personalmente, sono riuscita ad far fronte a molte situazioni complicate, e sono fiduciosa che questa possibilità continui a sorridermi…”.
Questo il ritratto di uno dei nemici pubblici dei fondamentalisti islamici, oggetto quotidianamente di insulti e minacce sul web, dai contenuti irripetibili, il cui nome tra i terroristi è certamente più conosciuto di quello di molti capi di stato occidentali. Anche Cantlie e il suo video sono stati utilizzati per screditarla (v. foto).
Quanto fa paura l’informazione allo Stato Islamico?
gjm