Il boia dell’ISIS, quello che ha decapitato James Foley, Steven Sotloff, David Haines e Alan Henning, sembra essere diventato la star di questa guerra. L’effetto dei bombardamenti in Iraq e Siria, le barbare uccisioni perpetrate dalle milizie dello Stato Islamico, la resistenza dei curdi di Kobane, tutto passa in secondo piano quando si parla dei brutali omicidi commessi da un folle dinanzi una telecamera. Anche i videomessaggi dell’inglese John Cantlie, il giornalista britannico rapito due anni fa in Siria, perdono l’effetto mediatico che un anonimo regista del terrore avrebbe voluto ottenere.
Troppi episodi. Episodi, già, forse l’errore dell’ISIS sta nel chiamare “episodio” ogni singolo messaggio, quasi fosse una finzione cinematografica e non la sofferenza di un uomo costretto a recitare una parte della quale avrebbe fatto volentieri a meno. Manca la suspense, quel sentimento di ansia generato dalle continue sorprese, dalla non conoscenza del finale. I messaggi si ripetono secondo un copione conosciuto e il finale si può bene immaginare, con poche possibilità di sbagliarsi.
Il numero degli episodi lo conosciamo già e se ben analizziamo le immagini, ci rendiamo conto che la serie degli “episodi” manca di qualcosa. Non c’è la successione degli eventi. Cantlie non parla di fatti accaduti dopo l’uscita del primo video. L’ambientazione è sempre la stessa, persino i più piccoli particolari, come la lunghezza di barba e capelli, la loro posizione, ci dicono che il “film” è stato realizzato nel corso della stessa giornata. Eppure, nessuno ne scrive. Perché? Perché non c’è un’analisi dei fatti, perché non ci si chiede come mai Cantlie e non gli altri abiia “registrato” una serie? Perché nessuno si chiede se Cantlie è ancora vivo o meno, visto che la registrazione dei video in uno stesso giorno potrebbe lasciar supporre l’impossibilità che ne vengano messi in rete di nuovi? Perché non ci chiediamo se Cantlie è nelle mani di “John l’inglese” o di altri che, seppur in contatto con il gruppo del boia, hanno scelto un copione diverso da quello suo?
La risposta non è poi così difficile. Il “film”, così come viene presentato, seppur nella sua tragicità, e che non può essere definito diversamente, manca di quelle peculiarità che lo rendono “interessante” per l’opinione pubblica. Non c’è la trama, non c’è la suspense, non c’è la violenza fisica nelle immagini, quella violenza che è rimasta fuori dallo schermo e che solo Cantlie ha visto e subito sulla propria pelle. L’unica cosa che ha da offrire, è la figura di un occidentale, di uno di noi. Come se gli altri fossero diversi da noi, come se siriani, iracheni, afghani o pakistani non fossero uomini come un inglese, un italiano, un francese o un americano.
Questo spiega il perché una parte dell’opinione pubblica sa di John l’inglese e delle sue vittime, ma non sa delle decine di morti, delle brutali esecuzioni, delle stragi perpetrate quotidianamente in Siria e in Iraq. Stragi come quella di ieri perpetrata dallo Stato Islamico che ha messo a morte più di cinquanta curdi in poche ore. O come quella di venerdì scorso, quando nel pubblicare la foto di combattenti curdi catturati dai terroristi dello Stato Islamico hanno ironizzato scrivendo che “la squadra di calcio Peshmerga giocherà domani alle 20:00 nello stadio di Mosul… da non perdere…”. La macabra ironia di un gruppo di assassini che nel pubblicare le immagini delle brutali decapitazioni dei Peshmerga, hanno dedicato questa frase alla fine di un uomo in tuta arancione, uno della “squadra” fotografata poco prima: “uno dei giocatori è stato espulso… la partita è annullata….”.
Anche nel caso dei Peshmerga il copione è lo stesso, tute arancioni, messaggi all’occidente, decapitazioni. Eppure non ne scriviamo. Come se appartenessero ad un altro mondo che non è il nostro. La verità è che la nostra morbosa curiosità ci spinge a vedere il cadavere del nostro vicino di casa, di colui che conosciamo o che per nazionalità, usi e costumi sentiamo più vicino a noi. Tutto il resto non conta.
Il pubblico, così come avviene al cinema, vuole azione, sangue, ansia, emozioni forti. Tutto questo qui manca e se solo scrivessimo quello che s’intuisce dalle immagini e dai messaggi del giornalista inglese, verrebbe meno la stessa notiziabilità dei suoi video. Nessuno più seguirebbe le notizie che lo riguardano, con quel briciolo di curiosità morbosa, quasi sadica, che ci spinge a stare dinanzi uno schermo tv o dinanzi al computer.
Passa così in secondo piano la notizia, l’informazione che avremmo in diritto-dovere di dare ai nostri lettori, per cedere il passo alla spettacolarizzazione dell’evento, alle immagini che catturano la nostra attenzione, che ci ipnotizzano attraverso l’azione e non ci lasciano il tempo di riflettere.
Quella stessa comunicazione mediatica che fa di “John l’inglese” la star del Califfato, capace di attrarre un pubblico immaturo all’interno del quale è possibile trovare soggetti labili di mente, demotivati da una società che sembra non aver più nulla da offrire e che sotto la spinta di un forte richiamo a valori, sfide e pressioni dal gruppo sociale che hanno finito con il mitizzare rischiano di identificarsi in questi “personaggi famosi” e di ripeterne le gesta. L’informazione è qualcosa di ben diverso dalla spettacolarizzazione dell’evento proposta con la logica della fiction, senza un’analisi e una lettura critica dei fatti per impedire che a lungo termine delle notizie così date in pasto all’opinione pubblica rimanga soltanto l’effetto di quelle immagini la cui visione porta ad una maggiore predisposizione all’aggressività.
Qual è dunque il compito del giornalismo, se non quello di spiegare al pubblico quello che sta vedendo? Già in passato abbiamo sostenuto la necessità di informare i lettori di quanto succede. Non è impedendo la visione delle immagini o tacendo sulle notizie che assolviamo al nostro ruolo. Né la censura ci aiuta a vincere un nemico, sia che si tratti della crisi economica, di un virus o dello Stato Islamico. Quello che è importante è il dare le notizie attribuendo un senso a quello che offriamo ai lettori, raccontando i fatti avendo rispetto per la verità ma spiegandone le ragioni, offrendo un’analisi critica degli stessi, senza lasciarci andare ad inutili spettacolarizzazioni che soddisfano solo la morbosità sadica di una società viziata dalla continua violenza che, da fiction cinematografica, finiamo con il vivere nella nostra quotidianità.
Altrimenti, finiremo con il fare di “John l’inglese” l’eroe in negativo al quale altri si ispireranno. A tal proposito, quanti di voi sanno che “John l’inglese” non offre nulla di diverso da quello che già è stato rappresentato sui set cinematografici?
Gjm