Giovani, età compresa tra i 18 e i 30 anni, colti, spesso senza una formazione o un addestramento militare. È questo l’identikit di molti dei combattenti stranieri che dall’Europa – ma anche da Stati Uniti, Russia e Australia – raggiungono come volontari la Siria o l’Iraq per combattere. Nel caso della Siria, buona parte dei combattenti decide in maniera del tutto personale di andare a combattere contro un regime che ritiene colpevole di aver massacrato il suo popolo. È il caso anche di quei ribelli inglesi che dopo essersi arruolati tra le fila dell’ISIS si sono dovuti ricredere quando si sono accorti che dovevano combattere contro coloro che si erano ribellati ad Assad, e che di conseguenza hanno chiesto di poter tornare in Europa, stanchi di una guerra che non condividevano più.
Altri ben addestrati militarmente, è il caso dei mercenari e dei tanti estremisti islamici che hanno raggiunto la Siria e l’Iraq, vengono inquadrati in strutture organizzate.
Si calcola che nella sola Siria siano presenti tra i 12.000 e i 15.000 combattenti stranieri. Da dove provengono? Inghilterra, Francia, Danimarca, Svezia, Olanda, Belgio, Italia, sono tra i paesi che registrano il maggior numero di partenze per il fronte. Dalla Danimarca venivano erano partiti i quattro giovani morti ieri in Siria, mentre inglese è il boia dell’ISIS che ha decapitato i due giornalisti americani.
E – seppur cittadino statunitense – sempre dall’Inghilterra arriva Abū Usamah, noto per avere espresso in passato il suo sostegno a Osama bin Laden e per essere stato più volte invitato a partecipare come relatore ad eventi organizzati da società islamiche.
“E ‘un bellissimo spettacolo vedere i fratelli che corrono incontro ai proiettili senza paura della morte” – scriveva l’8 luglio dall’Iraq Abū Usamah ai suoi amici – “Questa è stata la scelta migliore che ho fatto nella mia vita. Gli Ansari (sostenitori della causa) in Iraq sono così accoglienti e ospitali. Siamo stati accolti in oltre 10 case. Cara mamma: ho venduto la mia anima per amore di Allah, noi non potremo mai incontrarci di nuovo in questa vita, ma Allah ci riunirà in paradiso – scriveva il 10 dello stesso mese – Tra noi e gli ebrei è la spada. Noi vendicheremo i nostri fratelli di Gaza!”.
Il 22 di luglio comunicava ai suoi amici come nonostante fosse in Iraq solo da qualche giorno avesse già sperimentato gli attacchi dei droni americani.
Ieri si diffondeva la notizia della sua morte: Caduto mentre combatteva tra le fila dell’ISIS. Una notizia che veniva però presto smentita dallo stesso Abū Usamah con il seguente messaggio: “Asalaamu alaykum wa wa rahmatullahi barakatuh. Le voci sulla mia morte sono false, sono stato ferito in battaglia, ma sto guarendo alhamdulillah”.
Che sia morto o sia stato ferito, lui come tanti altri, poco importa. Le domande per noi sono altre: cosa accadrà quando questi combattenti torneranno nei paesi dai quali erano partiti? Come faremo a distinguere quei combattenti partiti in difesa delle proprie famiglie o del proprio popolo (questo vale tanto per i governativi quanto per le forze ribelli) dai terroristi islamici pronti a colpirci nelle nostre città?
Se tutti siamo pronti a riconoscere l’ISIS come organizzazione terroristica, e di conseguenza a non accettare il rientro in Europa di fondamentalisti islamici partiti per combattere, lo stesso principio può essere applicato per quelli che potrebbero essere definiti “partigiani” del proprio paese?
In questo senso, nessuno – neppure Obama nel suo discorso di ieri – si è posto il problema. L’unica precisazione è stata quella di non confondere l’ISIS con l’Islam, ma su come affrontare il problema del rientro di eventuali combattenti musulmani moderati (ovvero ribelli siriani non legati al fondamentalismo islamico) neppure una parola.
Ancora una volta l’occidente sembra guardare con un certo strabismo alla questione siriana…
gjm