Inauguriamo con questo primo testo narrativo, una nuova rubrica che va ad arricchire ulteriormente il giornale. La rubrica dei racconti. Perché pubblicare dei testi narrativi su un giornale? Leggere un racconto, ci porta a vivere in una dimensione diversa dalla nostra, ma nella quale, a volte, potremmo anche riconoscerci e trarne spunti di riflessione.
Un mondo fantastico che, apparentemente avulso dalla realtà, ci narra di chi lo ha scritto. Il suo pensiero, la sua vita, i suoi sogni, vengono tramutati in parole. La rubrica che andiamo a proporvi, raccoglierà racconti brevi, frutto della fusione tra realtà ed immaginario, abilmente e gradevolmente elaborata dall’autrice.
In un’epoca in cui tutti scrivono libri, spesso frutto di collage di opere letterarie mal scopiazzate, abbiamo preferito proporre ai nostri lettori degli scritti inediti la cui forma espressiva, breve e gradevole, ben si adatta alle esigenze dei nostri giorni.
Sara Milla, autrice del racconto, nasce e vive a Roma. Che dire di più?
Buona lettura.
Gjm
Lia
di Sara Milla
Non poteva certo immaginare che fosse un “giorno speciale”. Già l’espressione non le richiamava nulla di conosciuto, avrebbe fluttuato a ripetizione nella sua mente e ne sarebbe uscita senza una codifica precisa, ma forse dai sorrisi che aveva intorno, dalla leggera eccitazione che riusciva a percepire, sentiva con una certa piacevole apprensione che c’era qualcosa di nuovo e che lei doveva corrispondervi.
La luce che entrava dalla sua finestra, al mattino, le capitava dritta sulle palpebre socchiuse. Era per lei il segno che doveva alzarsi o perlomeno formulare un pensiero che preannunciasse una serie di movimenti collegati fra di loro che avrebbero ottenuto l’effetto dovuto. Ma quella mattina aveva aperto gli occhi su un viso semiconosciuto e debolmente sorridente: Buongiorno Lia, il suono era arrivato un po’ ovattato alle sue orecchie. Si era dunque guardata intorno per quanto le poteva permettere la posizione sdraiata e quella faccia piazzata davanti ai suoi occhi che le toglieva buona parte della visuale. C’era una inserviente, con il grembiule azzurro, e c’era il suo vicino di stanza
Siamo qui per farti gli auguri Lia, disse lui e sorrise, le sembrò avesse qualcosa di diverso, qualcosa nell’espressione del viso, all’altezza delle labbra, ma ci avrebbe riflettuto più tardi. Faticosamente allungò il braccio per prendere i suoi occhiali sul comodino vicino al letto. Ma l’inserviente la precedette e glieli porse. Grazie, sussurrò Lia, e tutti sorrisero di nuovo. Una volta inforcati gli occhiali riconobbe la coordinatrice della casa famiglia. La guardò bene e anche questa le sembrò cambiata, qualcosa nei capelli, ma si ora era bionda. A differenza delle altre volte,le piacque il tono leggermente cantilenante che usavano con lei: Allora auguri Lia, cento di questi giorni e risero un po’ più forte, solo il suo vicino di stanza abbassò gli occhi. Festa, mormorò, doveva essere la sua festa,il suo compleanno, compleanno, disse più forte, e loro si guardarono e annuirono, vedi ricorda, queste parole ancora le ricorda. Spento questo mormorio vide la mano del suo amico che sfarfallava in segno di saluto: -Torno dopo ora devi fare toletta-
-come i cani- pensò lei lucidamente mentre l’inserviente le scostava le coperte e cercava di aiutarla a mettersi seduta sul letto.- Ora si fa una bella doccetta rinfrescante, ci facciamo belle- L’inserviente, tal Gioia, l’aveva presa con molta perizia sotto le ascelle e cercava di tirarla su. Lia, non molto appesantita dall’età, si appoggiò dunque all’inserviente ritrovandosi dritta in piedi. Quella mattina sentiva che le estremità affondavano in qualcosa di soffice e cercò di guardare verso il pavimento. Ha visto che belle pantofole? Le piacciono? Sono il regalo del suo amico, intervenne la coordinatrice. Allora lei guardò verso la porta da cui era uscito Domenico. Grazie mormorò in quella direzione. Poi cercò di riprendere il passo dietro Gioia che la conduceva verso il bagno. Cosa le piacerebbe fare oggi? Chiedeva Gioia, con poca convinzione, tanto per chiacchierare, con la leggerezza e insieme l’avvilimento di chi sa che non riceverà risposta. Aiutò Lia a spogliarsi, regolò l’acqua, la raccolse nella spugna. Mentre Lia contribuiva a quella specie di doccia calda e profumata, le venne una parola che aveva rimaneggiato per tirarla fuori bella pulita:
-Canzone- esclamò. Gioia smise per un attimo di strofinarla:
-Canzone? Ha detto canzone Lia?- Lia credette di soffocare, lo shampoo alla verbena le era colato sugli occhi e nel naso, tossì e annuì contemporaneamente, ma non si lamentò. Poi Gioia l’asciugò con un bell’asciugamano bianco, ampio, e Lia chiuse gli occhi. Affioravano spesso ricordi così antichi ed acuti che non poteva che stringere gli occhi e distendere le labbra in un sorriso tirato, stanco. Le pantofole erano di spugna, infine se ne rese conto, e rimase a rimirarle un po’ mentre Gioia le passava l’asciugamano sui capelli: Ha ancora dei bei capelli Lia, folti, non sono tante le persone a cui rimane una così bella capigliatura. Lia rimase appesa ad alcune parole, come “ancora”, per esempio, e “rimane” :rimanere per quanto? ancora dopo cosa? Le pantofole erano rosa pallido,le piacque. Grazie, mormorò verso le sue morbide calzature, ma del tutto a sproposito si rese conto, quando Gioia le rispose: non c’è di che Lia. Certo non era stato sempre così facile. Ricordava le immagini rubate agli specchi dei bar, sotto l’androne della stazione, in cui le appariva una sconosciuta spaesata, grigia, sporca, inviperita. Aveva attraversato quei pavimenti gommati, salito e sceso quelle interminabili scale mobili in un andirivieni continuo ed alla fine aveva ceduto: non ricordava niente e così sia. Come ti chiami : Lia, e subito dopo, voglio dormire.
Erano seguite giornate piene di dolore, di inspiegabile tristezza, un intrico di pensieri abbarbagliati come una massa colta dal panico in fuga verso un’unica uscita. Si sentiva incastrata, come la sua lingua, tra denti radi.
Ora ci aveva fatto l’abitudine. Qualche volto gentile, qualche volto inspiegabilmente crudele, qualcuno che cercava di parlare a lei, a Lia, e qualcuno che parlava ad una categoria così ben rappresentata da tutte le sue patologie. Era grave solo quando qualcosa si risvegliava e le apriva di colpo la mente, come una strada di montagna in dissesto su cui avessero improvvisamente ripristinato i segnali. Tutto si schiariva, le parole che affluivano verso di lei trovavano il giusto recapito postale, e quelle in partenza erano esatte e conseguenti. Ma come le nuvole nere piombano sulle cime nel bel mezzo d’un trionfo di sole, così si oscurava il passaggio appena intravisto, e calava la tempesta.
Gli anni, le diceva ora Gioia, gli anni erano ottantacinque. Si accorse che la guardava dritto negli occhi, perché voleva essere sicura che Lia la ascoltasse. Ma lei si perse un po’ nel blu profondo degli occhi di Gioia, che nel vederla così smarrita le accarezzò con rispetto la guancia. Questo la turbò molto e non seppe che spingere in avanti le labbra per farle segno che voleva baciarla. La ragazza accostò la guancia e si fece baciare. Poi le asciugò i capelli con il phon e Lia le regalò due minuti di esattezza: erano biondi, disse. Le parve che Gioia reagisse carezzandola, così doveva essere stata anche la piccola mano di Lia che lisciava i capelli della mamma, ma era tanto indietro, ancora così vivo, rischiava di guastarle quella beatitudine.
Era inquieta ma neanche tanto, oggi sentiva che le persone le avrebbero usato solo dei riguardi, domani forse non più, ma si era all’inizio del giorno, lo diceva l’aria ancora fresca, e il sole discreto che non aveva preso possesso della sua stanza.
Quando Gioia smise di armeggiare intorno al suo corpo come un meccanico intorno ad un motore, la condusse in prossimità del letto e la pregò di osservare: sul letto era disteso una specie di abito blu con dei pallidi fiori rosa, discreti. Perfino il collo e il giro delle maniche erano profilati di rosa, e questo a Lia sembrò delizioso. Indicò l’abito con l’indice proteso e fu invece colpita dalla sua mano vecchia, non le sembrò neppure di riconoscerla. Gioia la aiutò ad infilare quel nuovo vestito, le mise poi ai piedi dei sandali comodi e la condusse nella cucina dove gli ospiti della casa famiglia prendevano la colazione. Qualcuno la salutò, riconobbe la voce del suo amico Domenico e lo cercò con lo sguardo. Poi apprese che sarebbe uscita. Domenico la aspettava ai piedi dei tre gradini che immettevano nel giardino della casa famiglia. Gioia li aiutò a mettersi sottobraccio ed essi si avviarono. Il sole cominciava a scaldare intorno e ad illuminare i verdi dei giardini, i marmi bruni delle fontane, le facciate mattonate delle case. Allora Lia guardò il suo vestito nuovo, sentì la sua pelle pulita, e consegnò al suo amico un rapido, breve sorriso.
Ho salvato Lia – I racconti di Sara | La Valle dei Templi tra i preferiti!